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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

Rivista LIMES n. 10 del 2021. La Riscoperta del Futuro. Prevedere l'avvenire non si può, si deve. Noi nel mondo del 2051. Progetti w vincoli strategici dei Grandi

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domenica 21 dicembre 2014

Rivista di approfondimento INdiaIndie

  
L’Istituto Affari Internazionali (IAI) di Roma e il Torino World Affairs Institute (T.wai) presentano il numero 4/2014 di IndiaIndie, la nuova collana di brevi saggi monografici che ha l'ambizione di diffondere in Italia una maggiore conoscenza di questa importante e poco conosciuta realtà.
Il numero, incentrato sul tema della competizione indo-pakistana in Afghanistan, si avvale del contributo della studiosa Elisa Giunchi, ricercatrice presso il Dipartimento di Studi Internazionali, Giuridici e Storico-Politici dell’Università degli Studi di Milano e Senior Research Fellow presso l’Ispi.
La serie di saggi intende fornire alcune chiavi di interpretazione del dibattito in corso in India sugli effetti della globalizzazione per quanto riguarda l'economia, la società e la democrazia nel subcontinente indiano. Anche questa iniziativa, come OrizzonteCina, è frutto della cooperazione strategica fra i due istituti e la Compagnia di San Paolo di Torino.
Buona lettura!
 per informazioni geografia2013@libero.it

Clima ed Energia in prospettiva

Pacchetto clima-energia 2030
Ue, poche ambizioni per il futuro dell’ambiente 
Marco Siddi
05/12/2014
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Guarda al 2030 l’Unione europea (Ue), raggiungendo un accordo sugli obiettivi climatici ed energetici del futuro.

Il ‘pacchetto clima-energia 2030’, come viene riassuntivamente chiamato l’insieme degli obiettivi, è il biglietto da visita con cui l’Ue si presenterà alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Parigi a novembre 2015.

L’obiettivo sarà quello di persuadere gli altri paesi industrializzati a ridurre le emissioni di CO₂. L’accordo, raggiunto lo scorso ottobre, prevede una riduzione delle emissioni di anidride carbonica del 40% rispetto al 1990, la produzione di almeno il 27% dell’energia da fonti rinnovabili e un aumento dell’efficienza energetica del 27%.

I leader europei hanno affermato che gli obiettivi sono ambiziosi e che rafforzeranno la posizione dell’Ue in vista del summit di Parigi.

Taglio delle emissioni di CO₂ poco coraggioso
Tuttavia, a una più attenta analisi, questo ottimismo appare ingiustificato. Solo l’obiettivo riguardante la riduzione delle emissioni di CO₂ è stato ulteriormente suddiviso in obiettivi vincolanti a livello nazionale.

Per quanto riguarda le energie rinnovabili è stato fissato solamente un livello Ue e non è chiaro come verrà tradotto in obiettivi vincolanti per ciascuno stato membro. Inoltre, l’obiettivo per l’efficienza energetica non è vincolante e gli stati membri potranno ignorarlo senza rischiare sanzioni.

Se si osservano i numeri, nessuno degli obiettivi del pacchetto 2030 sembra particolarmente ambizioso.

Come evidenziato da uno studio dell’Istituto di studi energetici dell’Università di Oxford, l’Ue riuscirebbe a tagliare le sue emissioni di CO₂ del 32% entro il 2030 semplicemente lasciando in atto le politiche attuali, senza ulteriori sforzi.

Per questo, associazioni ambientaliste come Friends of the Earth (Amici della Terra) sostengono che l’obiettivo del 40% è troppo basso e che l’Ue dovrebbe puntare a un obiettivo ben più ambizioso, intorno al 60%.

Energia da fonti rinnovabili
Allo stesso modo, l’obiettivo del 27% per le rinnovabili non è un passo avanti significativo, né rispetto a quello del 20% già stabilito per il 2020, né in rapporto alla produzione energetica attuale derivante dalle rinnovabili (intorno al 14% del totale).

Puntare su obiettivi più ambiziosi avrebbe prodotto benefici a livello strategico e geopolitico per la Ue, contribuendo a ridurre la dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili dalla Russia - una delle preoccupazioni principali per Bruxelles nel contesto della crisi ucraina.

L’aspetto forse più controverso dei recenti accordi a livello europeo riguarda la necessità di un voto unanime di tutti i 28 paesi membri per l’introduzione di nuove leggi in materia di politiche climatiche ed energetiche.

Questo significa che stati come il Regno Unito e la Polonia, che si sono strenuamente opposti a obiettivi più ambiziosi e vincolanti per le energie rinnovabili e l’efficienza energetica, avranno diritto di veto sulla nuova legislazione.

Verso Parigi 2015
Dopo essere stata per anni la potenza guida nelle politiche globali volte a contrastare il cambiamento climatico, l’Ue ora rischia di essere relegata a un ruolo marginale. Alla conferenza Onu sul clima a Copenaghen, nel 2009, i diplomatici cinesi e statunitensi decisero l’esito del summit in negoziati bilaterali, ignorando la posizione europea.

Gli ultimi eventi sembrano indicare che lo stesso scenario potrebbe ripetersi alla conferenza di Parigi nel 2015. A metà novembre, durante il summit della Cooperazione economica asiatico-pacifica (APEC), Stati Uniti e Cina hanno raggiunto un accordo in materia di politiche climatiche in vista del summit di Parigi.

Per la prima volta dagli anni ’90, gli Stati Uniti si impegneranno a ridurre le emissioni di CO₂ (del 26-28%, rispetto ai livelli del 2005, entro il 2025).

Il presidente statunitense Barack Obama ha persuaso la Cina - il principale produttore globale di CO₂ - a ridurre le proprie emissioni a partire dal 2030. Pechino si è anche impegnata a coprire il 20% del suo consumo energetico utilizzando fonti non fossili (rinnovabili e nucleare) entro il 2030.

Alla luce di questi sviluppi, l’Ue può mantenere un ruolo di primo piano nelle politiche climatiche globali solo se si impegna a raggiungere obiettivi più ambiziosi di quelli annunciati nel pacchetto 2030.

Un impegno più lungimirante rafforzerebbe la posizione negoziale dell’Ue al summit di Parigi, dove i leader europei dovrebbero provare a persuadere i colleghi statunitensi e cinesi ad accettare in maniera vincolante sia gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO₂, sia i trasferimenti di tecnologia e finanziamenti per le politiche climatiche nei paesi in via di sviluppo.

Marco Siddi è ricercatore presso l’istituto CRENoS a Cagliari e ricercatore associato all’Istituto di Politiche Europee a Berlino.
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mercoledì 3 dicembre 2014

Russia: verso ulteriori difficoltà

Energia
Putin chiude l’autostrada del gas di South Stream
Nicolò Sartori
02/12/2014
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Come un fulmine a ciel sereno, il presidente Vladimir Putin decide di bloccare la realizzazione del gasdotto South Stream, destinato a trasportare il gas russo sui mercati europei aggirando il problematico transito attraverso il territorio ucraino.

Il blocco di South Stream era in realtà già nell’aria. Si poteva intuire dalle dichiarazioni di Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, compagnia promotrice del gasdotto insieme alla russa Gazprom già dal lontano 2006, e dalle parole del Ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi. Soltanto qualche giorno fa, quest’ultima aveva sottolineato che South Stream non era più così strategico per il governo italiano.

La fine di questo gasdotto potrà contribuire a ridefinire gli equilibri energetici nel continente eurasiatico, spostando, in particolare, l’ago della bilancia verso la Turchia, tassello cruciale non solo per il transito della Trans-Anatolian Pipeline (Tanap) e la realizzazione del Corridoio Sud, ma anche mercato di riferimento per le future, addizionali, produzioni di gas russo.

Salute precaria delle casse russe
L’annuncio di Putin suona perentorio, così come le critiche da lui mosse all’Ue per il fallimento del progetto. Tuttavia, le ragioni del naufragio del gasdotto di Gazprom sono molteplici e non tutte legate all’atteggiamento di Bruxelles nei confronti dell’iniziativa russa.

Certamente, la Commissione ci ha messo del suo. L’ostruzionismo europeo, arroccato sulle posizioni dettate dal Terzo pacchetto energia, si è inasprito ulteriormente in seguito al deteriorarsi delle relazioni con Mosca per il prosieguo delle ostilità in Ucraina. Lo sviluppo del gasdotto è diventato particolarmente complesso da un punto di vista politico e legale.

A ciò, vanno aggiunte sostanziali motivazioni di natura finanziaria ed economica, che rendono attualmente insostenibile la realizzazione del progetto. In primo luogo, lo stato di salute delle casse della Federazione russa, fortemente colpite dall’impatto congiunto delle sanzioni internazionali e del crollo dei prezzi del greggio.

Con un rublo in caduta libera, e le progressive difficoltà ad accedere al mercato del credito internazionale, il Cremlino si è trovato obbligato a rivedere alcune voci di spesa, facendo di South Stream uno dei suoi primi tagli. I consumi stentano a riprendersi e in un contesto di conflittualità con l’Ue, non giustificano gli ingenti investimenti necessari a realizzare la conduttura.

Roma guarda verso la Tap
Dal canto suo, l’Italia aveva investito parecchio capitale, politico e industriale, nella realizzazione del gasdotto. Lanciato da un’iniziativa del governo Prodi nel 2006, per quasi un decennio South Stream ha rappresentato l’emblema della duplice special relationship tra Roma e Mosca e tra Eni e Gazprom.

Relazione privilegiata, difesa a spada tratta dal nostro governo fino a qualche settimana fa, quando le aperture nei confronti di Mosca avanzate dall’ex Ministro degli esteri Federica Mogherini, erano costate all’attuale Alto rappresentante della politica estera europea molteplici critiche di eccessiva vicinanza al Cremlino.

La posizione italiana è cambiata in fretta, forse più per le nuove esigenze industriali di Eni, che per una radicale cambiamento della visione del nostro governo. Come sottolineato da Descalzi in audizione alla Commissione industria e bilancio del Senato, il gigante energetico italiano non sarebbe stato disposto a investire più dei 600 milioni di euro già stanziati per la realizzazione del progetto, a conferma di un radicale cambio di strategie avviato dalla nuova dirigenza di Eni.

In questo nuovo scenario, il tentativo italiano di ridurre la dipendenza dal gas russo (e dal transito per il territorio ucraino) passa, pertanto, dalla realizzazione del Corridoio Sud, e in particolare dall’approdo del gas dell’Azerbaijan in Italia attraverso la Trans-Adriatic Pipeline (Tap).

Sebbene il destino del gasdotto transadriatico non sia ancora del tutto certo (proprio il 3 dicembre si è riunita la Conferenza dei Servizi per discuterne gli ultimi dettagli), l’affossamento di South Stream rende Tap ancor più fondamentale per la sicurezza energetica nazionale.

Turchia, strategico pivot energetico 
Fondamentale, nel quadro geostrategico, sarà anche il ruolo della Turchia. Al momento di decretare la fine di South Stream, infatti, Putin ha annunciato anche la realizzazione di una conduttura che andrà ad assicurare ulteriori 63 miliardi di metri cubi (Bcm) di gas russo - esattamente la capacità prevista per South Stream - per i crescenti consumi proveniente dal mercato turco.

Sebbene la proposta di Putin possa sembrare, per ora, una mossa per gratificare il collega turco e allarmare ulteriormente i vicini europei, un simile sviluppo potrebbe avere un forte impatto sulla sicurezza energetica europea.

Da un lato contribuirebbe a rafforzare la politica di Mosca di diversificazione dei mercati, dall’altro, e forse è ancora più preoccupante, assicurerebbe al Cremlino grande influenza - e un sostanziale potenziale di ricatto - su Ankara. Il cui territorio turco rappresenta l’elemento chiave di tutta la strategia europea di diversificazione attraverso il Corridoio Sud.

La Turchia, teoricamente, non ha alcun interesse ad accrescere la propria dipendenza dal gas russo, che già contribuisce a quasi il 60% dei consumi nazionali. Tuttavia, di fronte alla rapida crescita dei consumi energetici e a possibili condizioni di favore concesse da Gazprom, potrebbe privilegiare i propri interessi nazionali di breve periodo e tergiversare sulla già complessa realizzazione della Tanap e di tutto il Corridoio Sud.

Proprio come accadde due anni orsono con Nabucco, sperando che - per la sicurezza energetica europea - la storia non si ripeta.

Nicolò Sartori è responsabile di ricerca del Programma Energia dello IAI (Twitter: @_nsartori).

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Nucleare iraniano: un accordo ancora possibile?

Negoziati Iran-5+1
Nucleare, ridotti a sperare in un altro rinvio
Riccardo Alcaro
19/11/2014
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Siamo agli sgoccioli. Il 24 novembre scadrà il periodo entro il quale l’Iran e i 5+1 - i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania con la presenza dell’Ue - si sono ripromessi di trovare un accordo che limiti il programma nucleare iraniano e allo stesso tempo allenti la morsa delle sanzioni sull’Iran adottate da Usa, Ue e Onu.

La posizione ufficiale di tutte le parti in causa è che un accordo sia ancora possibile. Tuttavia, in via confidenziale fonti dal Dipartimento di Stato Usa ammettono che le speranze sono ridotte al lumicino.

Che cosa succederà dunque nelle prossime settimane?

Centrifughe e sanzioni
Tre sono gli scenari possibili. Contro ogni previsione le parti riescono a trovare un accordo. Perché questo accada è necessario che l’Iran accetti due condizioni. La prima è una considerevole riduzione del numero di centrifughe, le macchine necessarie ad arricchire l’uranio. La capacità di arricchimento dell’Iran è la questione al centro del negoziato perché può essere impiegata sia a scopi pacifici che militari.

La seconda condizione è che l’Iran accetti una graduale revoca delle sanzioni. Teheran per ora sembra non volerne sapere. Non solo è intenzionata a mantenere tutte le centrifughe già installate, ma vuole aumentarne il numero in un futuro non troppo lontano. Né sembra disponibile ad aspettare anni perché la sanzioni, o almeno una buona parte di esse, vengano revocate.

Rischio collasso 
Il secondo scenario vede il negoziato collassare tra accuse reciproche. A questo punto potrebbe innescarsi una spirale potenzialmente catastrofica. Gli Usa inasprirebbero le sanzioni e spingerebbero l’Ue a fare altrettanto. In Iran, il partito del compromesso - guidato dal presidente Hassan Rouhani - vedrebbe ridotto il suo credito a vantaggio dei fautori dell’ostracismo a oltranza verso gli Usa.

In un primo momento, gli iraniani potrebbero evitare di riprendere le attività nucleari sospese nel corso del negoziato, in modo da privare di legittimità il tentativo Usa di rafforzare il regime di sanzioni. Prima o poi però il programma nucleare verrebbe riattivato su scala maggiore dell’attuale, generando forti tensioni con Usa, Arabia saudita (a cui Teheran contende il primato di potenza regionale) e Israele (che considera un Iran nucleare una minaccia esistenziale).

Se quest’ultimo dovesse stabilire che le sanzioni non sono sufficienti ad arrestare i progressi dell’Iran in campo nucleare, l’ipotesi di un’azione armata - da parte di Israele o degli Usa - diverrebbe tutt’altro che remota.

Il tempo passa, i negoziati si complicano
Il terzo scenario è quello di un roll-over, cioè di un’estensione del negoziato per due-quattro mesi. Né i 5+1 né l’Iran hanno dopotutto interesse a far saltare il tavolo negoziale.

Nonostante le difficoltà, qualche risultato tangibile è stato raggiunto - l’Iran avrebbe acconsentito, tra le altre cose, a un più intrusivo regime di ispezioni del suo programma nucleare e a limitare la sua capacità di produzione di plutonio (il materiale più usato per la fabbricazione di armi nucleari).

Più in generale, le trattative hanno congelato una fonte di enorme instabilità in una regione martoriata da rivoluzioni, guerre civili e l’ascesa dell’autoproclamatosi "stato islamico" in Iraq e Siria.

Oltre a scongiurare il rischio di un Iran nucleare e dare respiro all’economia iraniana, un accordo finale contribuirebbe a stabilizzare le difficili relazioni tra Iran e Stati Uniti. Potrebbe anche aprire a forme di cooperazione su dossier su cui c’è una certa sovrapposizione di interessi, come la lotta allo “Stato islamico”, che in quanto movimento sunnita radicale è ferocemente ostile non solo agli Usa e ai suoi alleati regionali, ma anche all’Iran sciita.

È bene tenere presente tuttavia che il contesto nel quale i negoziatori tornerebbero a trattare sarebbe più complicato dell’attuale (che certo facile non è) per due motivi. Il primo è che l’amministrazione Obama dovrà fare i conti con le resistenze del Congresso, che è molto vicino alle posizioni intransigenti di Israele e da gennaio sarà inoltre controllato dai repubblicani.

Il secondo è che Ali Khamenei, il leader supremo iraniano cui spetta l’ultima parola sul negoziato, potrebbe infine ritenere che gli Usa non abbiano lo stomaco per un intervento armato e che la crisi tra Russia e Occidente offra margini per indebolire i 5+1 e aggirare le sanzioni. Presi insieme, questi due elementi potrebbero ridurre lo spazio di manovra dei negoziatori o addirittura portare a una fine prematura delle trattative.

Per quanto pieno di incognite, un’estensione del negoziato è di gran lunga preferibile alla rotture delle trattative. Nonostante tutto, resta lo scenario più plausibile. Obama e Rouhani hanno sufficiente buon senso per capirlo. La questione è se avranno anche l’abilità e il capitale politico per chiudere una volta per tutte il contenzioso sul nucleare iraniano.

Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca dello IAI e Visiting Fellow presso il CUSE della Brookings.
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