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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

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giovedì 29 ottobre 2015

Europa: si parla di strategia

Lady Pesc
La riflessione strategica dell'Ue sulla Strategia Globale
Nathalie Tocci
22/10/2015
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Lo scorso giugno, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vice presidente della Commissione europea, Federica Mogherini, ha posto all’attenzione del Consiglio europeo il rapporto “The EU in a changing global environment. A more connected, contested and complex world”(L’Unione europea in un contesto globale in evoluzione. Un mondo maggiormente connesso, contestato e complesso).

Mogherini lancia la consultazione
Il documento è stato presentato come risposta all’invito rivolto dal Consiglio europeo, nel dicembre 2013, all’Alto Rappresentante, “di determinare l’impatto dei cambiamenti nella situazione globale e a esporre al Consiglio, nel corso del 2015, sfide e opportunità che ne derivano per l’Unione, previa consultazione con gli stati membri”.

Lo scopo di tale valutazione strategica, tuttavia, non significava meramente adempiere un mandato, ma anche preparare il terreno per una Strategia Globale dell’Ue.

Sembra ormai ovvio che i tempi siano (fin troppo) maturi per spingersi oltre la Strategia europea in materia di sicurezza del 2003. La battuta d’inizio della Strategia - “Mai l’Europa è stata così prospera, sicura e libera” - parla da sé.

Mentre la Grecia sprofonda sempre di più nella crisi, i jihadisti seminano morte ai confini e sul suolo europeo, e l’illiberalismo politico lusinga gli europei a entrambi gli estremi dello spettro politico, la battuta di esordio della Strategia collide, purtroppo, con la realtà odierna.

L’obiettivo di preparare il terreno per una nuova strategia è stato raggiunto. Il Consiglio europeo del giugno 2015 ha affermato che “l'Alto rappresentante continuerà lo sviluppo della riflessione strategica, al fine di preparare una strategia globale dell'Ue in materia di politica estera e di sicurezza, in stretta cooperazione con gli Stati membri, da sottoporre al Consiglio europeo entro giugno 2016”.

La valutazione strategica dell’Ue descrive un mondo sempre più connesso, dibattuto e complesso. Voltando pagina, quali sono le implicazioni di tale valutazione strategica per una nuova Strategia Globale dell’Ue?

Strategia Globale europea di partecipazione 
Un mondo più connesso esige una Strategia Globale europea di partecipazione. Alcuni leader europei, specialmente coloro che siedono nelle cancellerie e che sono principalmente ricettivi all’elettorato domestico, potrebbero cadere in preda a tentazioni di chiusura.

Infatti, potrebbero sperare che l’innalzamento di barriere possa scoraggiare terroristi, vicini assertivi, ideologie illiberali e migranti. Tuttavia, la connettività, caratteristica della nostra epoca, suggerisce che le minacce non possano sparire chiudendosi e che le opportunità senza precedenti, che un mondo più connesso offre, possano essere colte solamente attraverso un impegno proattivo oltre i nostri confini.

Un mondo più dibattuto esige una Strategia Globale europea guidata da senso di responsabilità. I tempi in cui l’Occidente poteva dettare i termini degli accordi di pace - sullo stile del conflitto in Bosnia - sono probabilmente superati.

Le ostilità, in particolare quelle ai confini dell’Europa, non solo si sono moltiplicate, ma sono divenute più complesse. Questo fragile contesto globale richiede una strategia che segue un metodo decentralizzato, volto a coltivare il seme della pace a livello locale e regionale.

Deve trattarsi di una strategia in grado di resistere a crisi prolungate; una strategia flessibile e pragmatica; una strategia il cui punto di partenza sia il mondo così com’è e non come desideriamo che sia. Deve trattarsi di una strategia pensata in prospettiva, capace di agire a livello locale e di negoziare a livello regionale.

Alleanze e partenariati
Un mondo più complesso, in cui vecchie e nuove potenze sgomitano per esercitare la propria influenza, implica che una Strategia Globale europea debba fondarsi su solide alleanze. Deve trattarsi di una strategia fondata su partenariati interni all’Unione, con le diverse voci presenti al tavolo dell’Ue in accordo.

In un’era in cui aumentano le sfide, ma scarseggiano i mezzi per fronteggiarle, la coesione interna diviene un primario interesse europeo, oltre che un prerequisito per una politica estera efficace.

Al contempo, il relativo declino dell’Ue in un mondo più complesso evidenzia quanto sia essenziale la costruzione di solidi partenariati a livello bilaterale, regionale e internazionale. La possibilità dell’Unione di realizzare i suoi obiettivi dipende dalla sperimentazione sul campo della solidità delle sue alleanze, siano questi nel vicinato, in Africa, o più distanti ancora.

Una Strategia Globale europea deve fornire un senso di orientamento, nel complesso, in grado di guidare l’azione attraverso acque agitate, per i prossimi cinque anni all’incirca.

Deve essere in grado di avvicinarsi ai desideri e alle esigenze dei cittadini europei, che risentono, come mai prima d’ora, le conseguenze delle decisioni e dinamiche della politica estera. Deve inoltre essere in grado di individuare il valore aggiunto dell’Ue in politica estera e di sicurezza.

Presumibilmente, tale valore aggiunto esiste per questioni ritenute importanti, benché in misura differente, da tutti gli Stati Membri. Questioni sulle quali, gli stati membri, non possono raggiungere da soli gli obiettivi prefissati, sulle quali l’Ue può dare un potenziale contributo e nessun altro assumerà con tutta probabilità la responsabilità di portare a termine il lavoro per noi.

Una rapida ricognizione mentale del planisfero suggerisce che gran parte degli obiettivi della strategia globale europea giace verosimilmente nelle regioni adiacenti, ampiamente distinguibili nel continente euroasiatico e africano. Senz’alcun dubbio, potrebbero però esistere obiettivi specifici in cui il valore aggiunto dell’Ue può esprimersi ancor più lontano.

Un primo passo importante, nel percorso di riflessione strategica dell’Ue, è stato fatto, spianando la strada a un mandato sulla Strategia Globale europea. Quest’ultima rappresenterà un rompicapo sul piano della creazione di consenso interno, assunzione di decisioni difficili e indicazioni non solo su ciò che desideriamo sia fatto, ma anche su come intendiamo farlo.

Il compito imminente è notevole ma Federica Mogherini è determinata a mettercela tutta.

Nathalie Tocci è vicedirettore dello IAI. Traduzione di Maria Elena Sandalli.
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lunedì 19 ottobre 2015

Bielorussia: il vecchio si conferma

Elezioni in Bielorussa 
Lukašėnka confermato, continua il valzer tra Mosca e Ue
Daniele Fattibene
13/10/2015
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Aleksandr Lukašėnka confermato. Con il suo quinto mandato, il presidente bielorusso prosegue la sua leadership incontrastata dal 1994.

Nelle elezioni di domenica, ha ottenuto l’83,45% dei voti, con un’affluenza alle urne pari all’86%, fatta eccezione per Minsk dove il dato si è attestato al 73%.

Lukašėnka ha ancora una volta sbaragliato la concorrenza alla quale sono rimaste solo le briciole.

Tatjana Karatkevič, membro del Partito Social-Democratico Bielorusso - prima donna nella storia candidata alla Presidenza - ha raccolto il 4.42%, Sergej Gaidukevič - leader del Partito Liberal-Democratico già avversario di Lukašėnka nel 2001 e 2006 - ha ottenuto il 3.32%, e infine Nikolaj Ulakovič - a guida del Partito Patriottico Bielorusso - ha chiuso con l’1.67%.

Irregolarità nel voto
Il plebiscito ottenuto da Lukašėnka ha posto nuovamente la questione della regolarità delle procedure di voto. In molti hanno messo in discussione lo strumento del voto anticipato - che è stato massicciamente sponsorizzato dal Governo con una mirata campagna mediatica e che è stato scelto dal 36% del totale dei votanti che faciliterebbe l’emergere di brogli e irregolarità.

Tale sistema ha reso infatti più complicate le attività di monitoraggio da parte degli organismi internazionali. In primo luogo la maggior parte degli osservatori sono arrivati nel Paese solo per l’election day e pertanto non tutti i seggi elettorali sono stati adeguatamente monitorati, anche perché la legislazione bielorussa richiede non più di due membri della commissione elettorale per rendere il voto valido.

Inoltre, esiste una “strana” correlazione tra il numero di persone che partecipano al voto anticipato e il livello di sostengo ottenuto storicamente da Lukašėnka.

Per questo motivo non sono mancate critiche da parte dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce). Nella classica conferenza stampa post-voto si è sottolineato che la strada da fare è ancora lunga e che occorre una riforma complessiva del sistema elettorale per risolvere alcuni problemi endemici, primo fra tutti le procedure di conteggio e tabulazione dei voti.

Altri organismi internazionali come l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa hanno però anche sottolineato che alcuni passi in avanti sono stati fatti, per esempio la decisione da parte di Minsk di rilasciare alcuni prigionieri politici.

Economia bielorussa 
Nonostante il grande successo elettorale, Lukašėnka non può certo dormire sonni tranquilli. L’economia bielorussa non naviga in buone acque e secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, nei primi otto mesi del 2015 il Pil si è contratto del 3.5% rispetto al 2014,anche a causa della decisione di deprezzare il valore del rublo bielorusso.

L’economia nazionale continua a essere troppo dipendente da Mosca e se la recessione russa non dovesse arrestarsi occorrerà trovare delle alternative economiche valide. Per questo motivo Lukašėnka ha recentemente incontrato la leader del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) Christine Lagarde.

Relazioni con Mosca
Le elezioni presidenziali non dovrebbero cambiare di molto la politica estera del Paese nel breve periodo. La Russia continuerà a essere il principale partner politico ed economico di Minsk.

Tuttavia Lukašėnka è consapevole che non ci si può fidare troppo del Cremlino e che il rischio di ingerenza russa è sempre dietro l’angolo. È quindi prevedibile che il pendolo bielorusso continuerà a oscillare tra unione e diffidenza con Mosca.

In tal senso, il leader bielorusso non ha ancora confermato la notizia di dislocare una base aerea russa nel Paese - scelta invisa a Occidente - anche se è stata ribadita la necessità di aerei per le forze armate nazionali.

Lukašėnka tra Russia e Ue
Intanto le relazioni con Unione europea e Stati Uniti sembrano attraversare una fase di “disgelo”. Diversi sono i motivi di soddisfazione per Bruxelles e Washington.

In primo luogo Lukašėnka ha giocato un ruolo chiave nei mesi scorsi nelle trattative del “Quartetto di Normandia” per fermare il conflitto armato in Ucraina.

La neutralità militare e l’attivismo di Minsk per sostenere il processo di peace-building nel Donbass hanno aumentato la sua credibilità a livello internazionale.

In secondo luogo i partner occidentali hanno apprezzato la pronta disponibilità del Governo a discutere di riforme strutturali, così come l’apertura verso gli investimenti diretti esteri.

I “giri di valzer” di Lukašėnka tra Russia e Ue non sembrano irritare più di tanto Bruxelles, come dimostra la decisione di sospendere per quattro mesi le sanzioni contro Minsk.

Pertanto il leader bielorusso potrebbe provare a ricavarsi un ruolo di ponte tra Russia e Ue - come tra l’altro sta già avvenendo dal punto di vista economico con Minsk che ri-esporta in Russia i prodotti agricoli europei aggirando il regime delle sanzioni.

Non sarà facile, anche perché Lukašėnka ha imparato una lezione importante dalla guerra in Ucraina: il Cremlino non si fa troppi scrupoli nei confronti dei piccoli paesi confinanti che si avvicinano troppo a Occidente.

Daniele Fattibene è Assistente alla ricerca presso il Programma Sicurezza e Difesa dello IAI.
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mercoledì 14 ottobre 2015

Tran Pacifi Parnerschip e la Cina

Commercio globale
Tpp, il mal di testa cinese 
Nello del Gatto
11/10/2015
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Frasi di circostanza quelle del governo cinese dopo che ad Atlanta è stato deciso il via libera della Trans Pacific partnership, Tpp, l’accordo di libero scambio fra 12 paesi del Pacifico, trai quali Stati Uniti, Giappone e Australia. Un accordo che interessa il 40% della produzione mondiale, che avrà necessariamente impatto sull’economia dei paesi e quella globale.

Effetto Tpp sulla Cina
L’impatto più grosso lo avrà soprattutto sulla Cina e per due ragioni non necessariamente economiche. La prima è che il paese di mezzo ha sempre cercato di avere un posto predominante nell’area sotto ogni aspetto. Facendo guadagnare posizioni al duopolio Usa-Giappone, il Tpp ribilancia i giochi di forza.

La seconda è che l’accordo arriva prima di quello sponsorizzato da Pechino per integrare le 21 economie dell'Asia-Pacific cooperation (Apec). Secondo alcuni analisti, questo accordo che prende il nome di Ftaap (Free trade area of the Asia-Pacific), potrebbe portare al Pil cinese anche più di un punto.

Anche se il Ministero cinese del Commercio ha cercato di minimizzare la tensione, descrivendo come molto importante l’accordo di Atlanta e spiegando che la Cina ha un atteggiamento di apertura mentale verso la costruzione di “tutti i sistemi che si adattano ai principi dell’Organizzazione mondiale del commercio”, Pechino ha ribadito che spera che il trattato possa inserirsi negli altri accordi di libero scambio già presenti nella regione.

La Cina ha infatti già accordi con alcuni paesi, come l’Australia, siglati proprio per affermare la sua importanza nell’area e si è aperta altre vie commerciali, come la Nuova via della seta.

La mitezza delle dichiarazioni del ministro del commercio cinese non sono però simili a quelle della stampa locale, dove la notizia non viene riportata se non nelle critiche che lo stesso congresso Usa ne fa.

Viaggio di Xi Jinping negli Usa
L’accordo di Atlanta arriva dieci giorni dopo la visita che il presidente cinese Xi Jinping ha fatto negli Usa.

Mediaticamente è stata surclassata dalla concomitante presenza in territorio americano di papa Francesco e di Vladimir Putin. Dopotutto l’incontro tra Obama e Xi è stato più una partita tra due scacchisti che tra due leader politici che intendono stringere rapporti.

Questo perché in diverse situazioni le due superpotenze non hanno fatto un passo indietro né uno in avanti, tanto che il Wsj è arrivato a dire che l’unica cosa che Xi Jinping si portava a casa da Washington era il saluto con i 21 colpi a salve.

Accordi sul clima e la cyber security
Anche i due accordi sbandierati come pietre miliari, sulla riduzione del clima in Cina e sulla sicurezza telematica sono, di fatto, dei piccolissimi passi, soprattutto perché rappresentano degli impegni, ma non si parla di metodi attuativi.

Stesso discorso per gli attacchi informatici. Da qualche anno, Cina e Stati Uniti si scambiano accuse reciproche di guidare attacchi informatici contro strutture governative o aziende.

Pechino, da molto tempo indicato come una delle patrie dei cyber attacchi, si è spesso definito vittima degli stessi, nonostante sia stata provata l’esistenza di strutture governative e paramilitari (una del genere fu scoperta qualche anno fa nel distretto Pudong di Shanghai, l’unità 61398 dell’esercito cinese), impegnate negli attacchi informatici.

D’altro canto, gli Usa, attraverso la Nsa, non hanno dimostrato meno “passione” dei cinesi verso il controllo e il furto, attraverso mezzi informatici, di dati sulla vita e le operazioni di aziende e governi.

Gli stati Uniti d’America e la Cina popolare a Washington hanno sottoscritto un impegno a "non condurre e non sostenere" operazioni informatiche che portino al furto di segreti aziendali. Un passo avanti, ma non certo la stretta sul cyber spionaggio che si chiedeva.

Ne è consapevole anche il presidente americano che ha annunciato controlli sull’attuazione degli impegni. Che ci fossero distanze fra i due è stato chiaro: Obama ha chiarito le posizioni degli Usa sui diritti umani e la competitività economica tra aziende, mentre Xi Jinping ha respinto accuse al mittente parlando di democrazia e diritti come obiettivi comuni nel rispetto delle differenze.

Dopotutto, Washington non è che possa esagerare nel fare la voce grossa. Pechino, non dimentichiamolo, detiene ancora la maggiore fetta del debito americano.

Differenze tra Xi e Obama
Al di là delle strette di mano di circostanza, le differenze e le distanze sono state evidenti sia durante che dopo la visita del segretario del partito comunista cinese negli Usa. Xi Jinpingè stato oggetto di proteste da parte dell’ambasciatrice americana all’Onu, Samantha Power, mentre presiedeva al palazzo di vetro il summit sull'eguaglianza di genere nel ventesimo anniversario della storica conferenza di Pechino sui diritti delle donne.

Non solo: è bastato che Xi Jinping tornasse a casa, che gli Usa hanno annunciato, il 3 ottobre, di essere pronti ad inviare navi militari e aerei nel mar della Cina meridionale per sfidare le rivendicazioni territoriali di Pechino sulle isole artificiali, che Cina sta realizzando come basi anche militari.

Nello del Gatto, dopo aver lavorato come giornalista di nera e giudiziaria nella provincia di Napoli seguendo i più importanti processi di camorra, si è dedicato agli Esteri. Nel 2003 era alla stampa della presidenza italiana del consiglio dell'Ue; poi 6 anni in India come corrispondente per l'Ansa e successivamente a Shanghai con lo stesso ruolo.
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venerdì 9 ottobre 2015

Il ritorno del confronto Usa Russia

Siria e Ucraina
Il resistibile conflitto tra Putin e Obama
Ugo Tramballi
05/10/2015
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La differenza fra Bill Clinton e Barack Obama – insieme 16 anni di potere americano democratico, sia domestico che globale – è la politica. Lo ha detto una volta Leon Panetta che dell’amministrazione Clinton fu il chief of staff, la carica di maggior potere dopo quella del presidente, e con Obama è stato segretario alla Difesa e capo della Cia.

Clinton, diceva Panetta, era venuto dal basso, aveva fatto il governatore di uno stato fra Mid West e Sud, l’Arkansas: amava la politica, si buttava nella mischia, ne governava la brutalità e l’arte del compromesso tutte le volte che occorreva, cioè quasi sempre.

Obama invece è un idealista, un liberal a tutto tondo che in realtà detesta le nuance della politica e le evita ogni volta che può.

Per lui c’è un bene e un male, difficilmente una via di mezzo. Il famoso discorso al mondo arabo dall’università di Al-Azhar del Cairo, per esempio, fu un capolavoro di retorica liberale al quale tuttavia non seguì la consistenza di una politica sul campo: promosse il cambiamento, ma non lo governò.

Esempi ancora più completi di questa idiosincrasia per il fango e la polvere della politica, sono il Medio Oriente e Vladimir Putin: il modo col quale Obama li ha affrontati, soprattutto il modo col quale ha tentato di evitarli.

Forse Vladimir Vladimirovich non avrebbe rischiato così tanto prima in Ucraina e poi in Siria, non avrebbe tentato di riaffermare così rapidamente l’ambizione imperiale russa, se i tentennamenti e il disimpegno di Obama non gli avessero così repentinamente aperto una prateria geopolitica.

Putin detta l’agenda della crisi ucraina
L’Ucraina e la Siria hanno molte similitudini nel comportamento dell’amministrazione Usa e in quello di Putin. La prima non era una priorità per gli Stati Uniti che non avevano la necessità né l’urgenza di aggiungerla alla Nato: non fosse stato così, non avrebbero lasciato a Germania e Francia la rappresentanza occidentale al vertice di Minsk.

Non era una priorità nemmeno per l’Unione europea, Ue, ad eccezione di polacchi e repubbliche baltiche. Quando sono iniziate le manifestazioni popolari in piazza Maidan, Obama non aveva una politica, a parte la reazione naturale a ogni governo occidentale di sostenere tutte le rivolte democratiche: era accaduto anche in piazza Tahrir, al Cairo.

Per Putin invece l’Ucraina era la priorità. Dal tipo di governo al potere a Kiev dipendeva quanto lontano sarebbe stata la Nato dalle frontiere occidentali russe; quanto vicino o lontano si sarebbe dispiegato il sistema missilistico anti-missile statunitense; quale postura avrebbe dovuto avere la strategia difensiva russa.

Per questo è sempre stato Putin a definire agenda e azioni in Ucraina. Stati Uniti e Ue hanno sempre solo reagito alle sue mosse. E se non fossero state così spregiudicatamente militari, la reazione occidentale sarebbe stata molto più cauta.

Siria, il fallimento di Obama
Così in Siria. C’è qualcosa che a Washington non ha funzionato se Obama arma e finanzia da anni l’esercito iracheno senza che questo sia forte abbastanza per tenere testa all’autoproclamatosi “stato islamico”; rifiuta di dare ai ribelli siriani le armi più potenti per impedire che cadano nelle mani del califfato, così facendo impedendo loro di vincere; tratta con gli iraniani sul nucleare, rischiando molto con i repubblicani in Campidoglio e Benjamin Netanyahu a Gerusalemme.

Poi è Putin a firmare un’alleanza armata con l’Iraq, l’Iran e il regime siriano per combattere lo “stato islamico”. La politica è arte del compromesso e ideali, ma anche temerarietà.

Farne sfoggio per Putin è più facile che per Obama. Il primo non ha un’opinione pubblica alla quale rispondere e il voto favorevole della compiacente Duma è solo un atto formale e scontato.

Obama deve rispondere a una società civile, una stampa e a un Congresso veri: camera dei rappresentanti e senato, entrambi a maggioranza repubblicana, poi, sono così ostili al presidente da votare contro a priori. Esattamente come la Duma, che invece vota sì, senza nemmeno chiedersi cosa si stia decidendo.

Usa e Russia, verso un nuovo bipolarismo 
Come il mondo prima del crollo dell’Unione Sovietica, le relazioni internazionali stanno tornando verso un bipolarismo fra due sistemi diversi. Anche se ora il capitalismo è comune a entrambi e potrebbe aggiungersi alla deterrenza nucleare (l’equilibrio del terrore, quello non cambia mai) per convivere e a volte collaborare meglio di prima. E come prima ci saranno alti e bassi, disgeli e nuove gelate.

A meno che Putin non si faccia prendere da una mania di grandezza più grande di quella mostrata fino ad ora, Stati Uniti e Russia cercheranno un modo per combattere insieme lo “stato islamico” e avviare prima o poi il negoziato per una nuova Siria, molto probabilmente senza Bashar Assad.

Ma una volta di più, come nel vecchio mondo della Guerra fredda, non è una Siria senza risorse energetiche il nocciolo del problema. Sarà l’Ucraina, cioè l’Europa il vero terreno di confronto o di collaborazione.

Ugo Tramballi è giornalista e inviato de Il Sole 24 Ore.
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