Attacchi di Parigi Francia, lo stato di emergenza e lo stato di diritto Benedetto Conforti 16/12/2015 |
Tre mesi di stato di emergenza per evitare il ripetersi di altri attacchi. È questo quanto ha dichiarato, dopo gli attacchi del 13 novembre, il presidente della Repubblica francese che ha anche informato il Segretario generale del Consiglio d’Europa.
Deroghe alla Cedu
Poiché alcune delle misure conseguentemente prese dal governo avrebbero potuto comportare una deroga ad alcune delle obbligazioni previste dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), il Segretario generale era pregato di considerare la lettera come un’informazione ai sensi dell’art. 15 della Convenzione.
L’art. 15 prevede che, in caso di guerra o di “altro pericolo pubblico che minacci la vita della Nazione”, qualsiasi Stato contraente possa prendere misure in deroga agli obblighi della Convenzione limitatamente a quanto sia strettamente necessario per fronteggiare la situazione, purché esse non contrastino con gli obblighi di diritto internazionale e con quelli derivanti dagli art. 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti) e 4 (messa in schiavitù) della Convenzione. Di tali misure il Segretario generale del Consiglio d’Europa deve essere informato.
Il Segretario generale non può che prendere atto dell’informazione, non avendo né il potere di vagliare la conformità delle misure prese all’art. 15 né quello di monitorarne successivamente l’applicazione.
Soltanto la Corte europea dei diritti umani può decidere se sussistano le condizioni per l’applicabilità dell’art. 15, oppure se norme di diritto internazionale o gli anzidetti articoli siano stati violati. Ciò sempre che essa sia adita da uno degli altri Stati contraenti, cosa che sembra improbabile dato l’attuale contesto europeo, o da individui che pretendano di essere vittime della violazione.
L’art. 15 è anche oggetto di una riserva formulata dalla Francia all’atto della ratifica della Convenzione nel 1974, riserva secondo cui le misure previste dalla legge sullo stato d’emergenza dovrebbero ritenersi come “corrispondenti all’oggetto dell’art. 15 della Convenzione”.
La riserva è ovviamente assorbita dall’attuale informazione, come lo fu in un altro caso analogo relativo a dei moti occorsi in Nuova Caledonia nel 1988, caso che non diede luogo a controversie.
Allo stato attuale, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, una simile riserva sarebbe invalida e pertanto come non apposta, essendo di carattere generale e quindi contraria all’art. 57 sulle riserve.
La giurisprudenza sull’articolo 15 Cedu
Ciò premesso, per quanto riguarda le condizioni di applicabilità dell’art. 15, i numerosi attacchi terroristici verificatisi a Parigi, nonché la ferocia degli ultimi, non lasciano dubbi sulla loro natura di pericolo pubblico minacciante la vita della Nazione francese.
D’altro canto, dalla scarsa giurisprudenza della Corte sull’art. 15 si ricava che questa si è sempre in linea di massima adeguata alla decisione dello Stato derogante, ritenendola come rientrante nel margine di apprezzamento di tale Stato.
La Corte si è così comportata fin dal primo caso di applicazione dell’art. 15 (Lawless v, United Kingdom, sent. del 19 dicembre 1959) allorché ritenne, con i giudici britannici, che certe misure detentive, considerate dal ricorrente eccessive e viziate dall’abuso di diritto vietato dall’art.17 della Convenzione, fossero invece “strettamente necessarie” nel quadro della lotta ai terroristi dell’Ira.
Anche nel recente caso A e a v. United Kingdom, caso anch’esso di lotta al terrorismo internazionale, la Corte (sent. del 19 febbraio 2009), nel ritenere che alcune misure adottate dal Regno Unito dopo l’11 settembre non fossero proporzionate, e quindi strettamente necessarie, rispetto al fine da raggiungere, si è adeguata ad una pronuncia della House of Lords, che aveva già constatato l’illegittimità della deroga ex art. 15. Si trattava, nella specie, della detenzione a tempo indeterminato e senza processo di presunti terroristi stranieri che non potevano essere estradati senza rischiare la tortura nei Paesi di destinazione.
Anche la giurisprudenza della Corte circa l’inderogabilità delle norme degli art. 2, 3 e 4 e le norme di diritto internazionale è assai esigua.
Per un caso di condanna per trattamenti disumani e degradanti in regime di art. 15 occorre risalire alla sentenza del 12 gennaio 1978, Ireland v. United Kingdom, in cui furono denunciate la violenza durante gli interrogatori e le famose cinque tecniche praticate tra un interrogatorio e l’altro. Si trattò di misure infliggenti sofferenze così intense che oggi la Corte, in base agli sviluppi successivi della sua giurisprudenza, dovrebbe considerare come atti di tortura. Né il diritto alla vita, né il divieto di schiavitù sono mai stati oggetto di decisioni.
E come obblighi internazionali si è sempre pensato al diritto internazionale umanitario applicabile alle guerre internazionali o civili, laddove nel nostro caso si tratta di azioni di polizia.Con riguardo al diritto alla vita e al divieto di tortura esiste un’enorme giurisprudenza, tutta utilizzabile che ci si trovio meno in regime di emergenza.
Un auspicio
Certamente, alcune fattispecie hanno maggiore possibilità di verificarsi durante un regime siffatto.
Per fare qualche esempio di violazione del diritto alla vita e del divieto di tortura più facilmente verificabili in periodi di emergenza, ricordiamo la giurisprudenza sul trattamento dei detenuti; ricordiamo in particolare, per il diritto alla vita, le molte condanne per le sparizioni quando lo Stato detentore non potesse almeno dimostrare di aver svolto una seria inchiesta sulle cause delle medesime, e, per il secondo, le condanne di Stati dalle cui carceri il detenuto era uscito con chiari segni di maltrattamenti fisici o psichici.
C’è da augurarsi che siffatti eventi non accadano in un Paese dove la libertà è da secoli la regola.
Benedetto Conforti è Professore emerito di diritto internazionale.
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Poiché alcune delle misure conseguentemente prese dal governo avrebbero potuto comportare una deroga ad alcune delle obbligazioni previste dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), il Segretario generale era pregato di considerare la lettera come un’informazione ai sensi dell’art. 15 della Convenzione.
L’art. 15 prevede che, in caso di guerra o di “altro pericolo pubblico che minacci la vita della Nazione”, qualsiasi Stato contraente possa prendere misure in deroga agli obblighi della Convenzione limitatamente a quanto sia strettamente necessario per fronteggiare la situazione, purché esse non contrastino con gli obblighi di diritto internazionale e con quelli derivanti dagli art. 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti) e 4 (messa in schiavitù) della Convenzione. Di tali misure il Segretario generale del Consiglio d’Europa deve essere informato.
Il Segretario generale non può che prendere atto dell’informazione, non avendo né il potere di vagliare la conformità delle misure prese all’art. 15 né quello di monitorarne successivamente l’applicazione.
Soltanto la Corte europea dei diritti umani può decidere se sussistano le condizioni per l’applicabilità dell’art. 15, oppure se norme di diritto internazionale o gli anzidetti articoli siano stati violati. Ciò sempre che essa sia adita da uno degli altri Stati contraenti, cosa che sembra improbabile dato l’attuale contesto europeo, o da individui che pretendano di essere vittime della violazione.
L’art. 15 è anche oggetto di una riserva formulata dalla Francia all’atto della ratifica della Convenzione nel 1974, riserva secondo cui le misure previste dalla legge sullo stato d’emergenza dovrebbero ritenersi come “corrispondenti all’oggetto dell’art. 15 della Convenzione”.
La riserva è ovviamente assorbita dall’attuale informazione, come lo fu in un altro caso analogo relativo a dei moti occorsi in Nuova Caledonia nel 1988, caso che non diede luogo a controversie.
Allo stato attuale, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, una simile riserva sarebbe invalida e pertanto come non apposta, essendo di carattere generale e quindi contraria all’art. 57 sulle riserve.
La giurisprudenza sull’articolo 15 Cedu
Ciò premesso, per quanto riguarda le condizioni di applicabilità dell’art. 15, i numerosi attacchi terroristici verificatisi a Parigi, nonché la ferocia degli ultimi, non lasciano dubbi sulla loro natura di pericolo pubblico minacciante la vita della Nazione francese.
D’altro canto, dalla scarsa giurisprudenza della Corte sull’art. 15 si ricava che questa si è sempre in linea di massima adeguata alla decisione dello Stato derogante, ritenendola come rientrante nel margine di apprezzamento di tale Stato.
La Corte si è così comportata fin dal primo caso di applicazione dell’art. 15 (Lawless v, United Kingdom, sent. del 19 dicembre 1959) allorché ritenne, con i giudici britannici, che certe misure detentive, considerate dal ricorrente eccessive e viziate dall’abuso di diritto vietato dall’art.17 della Convenzione, fossero invece “strettamente necessarie” nel quadro della lotta ai terroristi dell’Ira.
Anche nel recente caso A e a v. United Kingdom, caso anch’esso di lotta al terrorismo internazionale, la Corte (sent. del 19 febbraio 2009), nel ritenere che alcune misure adottate dal Regno Unito dopo l’11 settembre non fossero proporzionate, e quindi strettamente necessarie, rispetto al fine da raggiungere, si è adeguata ad una pronuncia della House of Lords, che aveva già constatato l’illegittimità della deroga ex art. 15. Si trattava, nella specie, della detenzione a tempo indeterminato e senza processo di presunti terroristi stranieri che non potevano essere estradati senza rischiare la tortura nei Paesi di destinazione.
Anche la giurisprudenza della Corte circa l’inderogabilità delle norme degli art. 2, 3 e 4 e le norme di diritto internazionale è assai esigua.
Per un caso di condanna per trattamenti disumani e degradanti in regime di art. 15 occorre risalire alla sentenza del 12 gennaio 1978, Ireland v. United Kingdom, in cui furono denunciate la violenza durante gli interrogatori e le famose cinque tecniche praticate tra un interrogatorio e l’altro. Si trattò di misure infliggenti sofferenze così intense che oggi la Corte, in base agli sviluppi successivi della sua giurisprudenza, dovrebbe considerare come atti di tortura. Né il diritto alla vita, né il divieto di schiavitù sono mai stati oggetto di decisioni.
E come obblighi internazionali si è sempre pensato al diritto internazionale umanitario applicabile alle guerre internazionali o civili, laddove nel nostro caso si tratta di azioni di polizia.Con riguardo al diritto alla vita e al divieto di tortura esiste un’enorme giurisprudenza, tutta utilizzabile che ci si trovio meno in regime di emergenza.
Un auspicio
Certamente, alcune fattispecie hanno maggiore possibilità di verificarsi durante un regime siffatto.
Per fare qualche esempio di violazione del diritto alla vita e del divieto di tortura più facilmente verificabili in periodi di emergenza, ricordiamo la giurisprudenza sul trattamento dei detenuti; ricordiamo in particolare, per il diritto alla vita, le molte condanne per le sparizioni quando lo Stato detentore non potesse almeno dimostrare di aver svolto una seria inchiesta sulle cause delle medesime, e, per il secondo, le condanne di Stati dalle cui carceri il detenuto era uscito con chiari segni di maltrattamenti fisici o psichici.
C’è da augurarsi che siffatti eventi non accadano in un Paese dove la libertà è da secoli la regola.
Benedetto Conforti è Professore emerito di diritto internazionale.
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