Già Rudyard Kipling parlava di "fardello", ma per lui il “burden” era quello del britannico (o altro europeo) “costretto” dalla storia ad impegnare i suoi figli migliori oltremare per provvedere al buon governo di popoli “per metà diavoli e per metà bambini”.
Finito il tempo di Kipling, più recentemente, i presidenti degli Stati Uniti, ultimo anche Donald Trump, hanno invocato un "burdensharing", la necessità di suddividere equamente fra tutti i membri dell'Alleanza Atlantica il fardello della difesa comune. Un diverso concetto di fardello, che condivide però con Kipling l’idea di una missione destinata a fare prevalere il bene sul male.
Le percentuali del Pil Ciò che gli Usa lamentano è il fatto che la percentuale del prodotto interno lordo (Pil) che gli altri alleati destinano alle spese di difesa non sia mai stata neanche prossima al livello delle risorse che essi stanziano.
Nel tempo sono esistite alcune eccezioni. In primo luogo quella della Francia e del Regno Unito, i cui bilanci per la difesa sono sempre stati più alti della media europea, sia per la volontà di finanziare una componente territoriale capace di sostenere ambizioni oltremare, sia per mantenere in essere una componente nucleare che, vista la sua esiguità numerica, è obbligata per ragioni di credibilità dissuasiva a sostenere un livello tecnologico molto avanzato e costoso.
In secondo luogo, almeno sino a pochi anni or sono, facevano eccezione la Grecia e la Turchia, ma più per reciproca diffidenza di vicini storicamente ostili che per motivi Nato.
Per tutti gli altri alleati valeva la regola molto pragmatica di fare il massimo reso possibile dalla situazione politica interna nonché dalle oscillazioni economiche di ciascun Paese. Nei periodi di più tesa contrapposizione fra i due blocchi, la media degli stanziamenti per la difesa si è quantificata così fra il 2 ed il 2,5 per cento del Pil.
Il calcolo del “burdensharing”che ne derivava non soddisfaceva ovviamente gli Stati Uniti che non perdevano occasione per ritornare con insistenza sull'argomento tutte le volte in cui avevano la possibilità di farlo.I loro rimproveri erano però basati su parametri essenzialmente economici, che da un lato non erano che parzialmente attendibili, mentre dall'altro non tenevano conto di elementi degni di nota che avrebbero invece dovuto essere presi in considerazione.
Il gioco del metti e leva La scarsa attendibilità dei dati dipendeva infatti dall'interesse che ciascun Paese aveva a gonfiare i propri stanziamenti ogni volta che essi venivano calcolati in ambito internazionale, salvo poi minimizzarli quando venivano presentati a parlamenti nazionali particolarmente inclini a considerare prioritarie altre spese rispetto a quelle destinate alla difesa.
A ciò si aggiunge il fatto che ciascun Paese utilizza proprie regole di contabilità e ha in bilancio numerosi stanziamenti “dual use” che possono essere aggiunti o meno al bilancio della difesa a seconda delle circostanze.
Nel caso italiano, ciò si è tradotto in alcuni anni in una differenza dello 0,6 per cento del Pil (cioè in sostanza di circa il 30 per cento del totale della spesa per la difesa) fra i dati che circolavano in sede Alleanza e quelli che venivano invece resi noti in ambito nazionale.
Per non parlare poi di quanto destinato ai Carabinieri, di volta in volta considerato, a seconda delle opportunità, come spesa destinata principalmente a esigenze di polizia o viceversa a quelle di difesa.
Gli Stati Uniti d’altro canto preferiscono ignorare quanto sia diversa la situazione di una grande potenza, con ambizioni di massimo livello, interessi globali e una presenza militare da mantenere credibile sin nel più remoto angolo del mondo, da quella di potenze medie o piccole interessate soltanto alla sicurezza di un'area ben determinata.
È questo un errore che gli Usa stanno ripetendo anche oggi allorché, con un certo livello di schizofrenia, accrescono in termini macroscopici il loro bilancio della difesa al dichiarato scopo di " rendere di nuovo grande l'America" mentre nel contempo invitano gli alleati a un maggiore "burdensharing", dando per scontato che anche gli altri Paesi condividano senza riserve questo loro obiettivo. Un punto su cui si potrebbe discutere a lungo ma che purtroppo non viene mai sollevato né in ambito multilaterale né, tantomeno, in quelli bilaterali.
Basi e costi e altri oneri Infine, nel parlare di fardelli, si dovrebbero mettere sul piatto della bilancia anche altri elementi, a volte difficilmente cifrabili, come a esempio il fatto che il territorio coinvolto in caso di scoppio delle ostilità con l'Urss era essenzialmente quello europeo.
In tempi di Mad (Mutual Assured Destruction), ciò era bilanciato almeno in parte dalla garanzia nucleare americana. Non è più così adesso, nel momento in cui contrasti fra Nato e Russia, sul tipo di quello in corso nell'area ucraina, appaiono destinati a mantenere caratteristiche di un conflitto addirittura più ibrido che convenzionale.
Ci sono poi Paesi europei che hanno sempre sopportato l'onere derivante dalla presenza sul loro territorio di forze americane schierate in basi Nato, di cui l'ospitante mantiene la sovranità, ma che le opinioni pubbliche nazionali tendono a considerare come basi statunitensi. Né questo deve sorprendere, visto che anche l'alleato transatlantico tende spesso a considerarle come tali, costringendo a volte il padrone di casa a reazioni decise o ad interdirne, almeno parzialmente, l'uso nonostante le pressioni statunitensi.
In altri tempi il fenomeno dello stazionamento in Europa di forze statunitensi aveva dimensioni macroscopiche, soprattutto per la Germania. Ma dopo la fine della guerra fredda la presenza permanente americana si è ridotta in tutti i Paesi europei, salvo l'Italia.
Si tratta del lato negativo di quella che per anni è stata evidenziata come la nostra "rendita di posizione strategica”, cioè il fatto che il nostro Paese, collocato al centro del Mediterraneo, permette agevolmentedi raggiungere parecchie potenziali aree di instabilità, come il Nord Africa, il Medio Oriente, i Balcani.
Oggi la presenza americana in Italia ha più o meno le dimensioni di quella che gli Usa mantengono nella Corea del Sud, nonostante le ben diverse condizioni strategiche. Si tratta di un onere che non è mai stato efficacemente evidenziato né tantomeno è entrato in linea di conto ai fini di una corretta suddivisione del fardello.
Parimenti dimenticate, anche grazie all'assurda regola della Nato secondo cui "costs lie where they fall" (in una traduzione libera: i costi sono sopportati da chi vi incorre), sono anche le spese in cui l'Italia è incorsa ospitando, nei due conflitti Nato più recenti, la guerra del Kosovo e quella di Libia, le forze aeronavali della Alleanza.
Costi cui si sono poi aggiunti anche quelli della ripulitura dell'Adriatico dalle bombe scaricate nelle "jettison zones" dagli aerei che ritornavano carichi da missioni per qualche motivo non completate. Si è trattato in questo caso di una operazione cui la Nato ha infine contribuito, ma solo dopo ripetute sollecitazioni.
Ma in fin dei conti… Ciò detto, non bisogna dimenticare che, anche se gli americani hanno torto nell'insistere su una formula di compartecipazione del tutto inadeguata, essi hanno tuttavia ragione quando sostengono che per lo più i loro alleati spendono troppo poco per la difesa e la sicurezza comune.
Di fronte ad una insicurezza nazionale ed internazionale crescente e ad un aumentato costo degli strumenti di sicurezza e difesa, primo fra tutti il personale, gli europei hanno per lo più reagito diminuendo costantemente, per più di 25 anni, le risorse destinate al settore. Quos jupiter perdere vult, dementat prius.
Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
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