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mercoledì 25 gennaio 2017

Energia: le nuove prospettive

Energia
Il futuro del carbone nell’era Trump
Enrico Mariutti
13/01/2017
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A lungo il carbone ha svolto un ruolo preminente nel comparto elettrico statunitense. Abbondante ed economico, ha rappresentato per decenni un’opzione ideale tanto sotto il profilo economico quanto sotto quello strategico, soddisfacendo, attraverso l’ampia disponibilità nazionale, un’ampia fetta del fabbisogno energetico Usa e fornendo una preziosa integrazione alle crescenti importazioni di greggio e gas naturale dal Medio Oriente e dall‘America centro-settentrionale.

Nell’ultimo decennio però tanto il comparto minerario quanto quello della trasformazione elettrica hanno patito crescenti difficoltà che, con l’introduzione della nuova normativa Epa (Enviromental Protection Agency) in materia di emissioni, si sono trasformate in una crisi generalizzata.

Crollo della domanda di carbone
Nel corso di un decennio (2006-2015) la potenza installata a carbone negli Usa è diminuita di circa il 10% mentre la produzione di energia elettrica da carbone ha subito un tracollo di oltre il 30%. Il mercato spot, per la sua stessa natura piuttosto limitata (il carbone è la materia prima di autoproduzione per eccellenza) non è stato in grado di assorbire il surplus dell’industria mineraria statunitense, causando violenti contraccolpi nel segmento estrattivo.

Tra il 2005 e il 2016 la produzione di carbone negli Usa è declinata di circa il 20%, passando da 1,1 miliardi di tonnellate all’anno a circa 900 milioni. La regione degli Appalachi, storico bacino carbonifero degli Stati orientali, è stata quella che ha subito maggiormente l’impatto della crisi, ma anche gli impianti a cielo aperto nella regione interna e in quella occidentale, tradizionalmente più competitivi, hanno risentito del crollo della domanda.

Nonostante il drastico ridimensionamento industriale, le ricadute occupazionali sono state piuttosto limitate. Nei passati decenni il settore ha infatti sperimentato una forte spinta all’automazione dei processi industriali che si è tradotta, tanto nel segmento minerario che, in misura minore, in quello della trasformazione elettrica, in una marcata diminuzione della labor intensity.

Di conseguenza, nonostante l’impatto relativo sia stato consistente, stimabile in circa il 20% degli addetti del settore, in termini assoluti il fenomeno è stato modesto, tra le 20 e le 25mila unità, e circoscritto a pochi Stati. Le radici di questa crisi sono complesse e frutto tanto di dinamiche di lungo periodo quanto di recenti e improvvise singolarità.

L’impatto della shale revolution
La shale revolution è stata certamente il fattore più rilevante quantomeno nel determinare l’acutizzazione del fenomeno. Lo sviluppo di nuove tecniche estrattive ha sbloccato l’accesso a depositi non convenzionali di gas naturale, inondando il mercato Usa di shale gas (gas proveniente da giacimenti argillosi profondi) e in misura minore di tight gas (gas proveniente da depositi di roccia arenaria compatta).

Il crescente afflusso di gas naturale nel mercato statunitense ha prodotto un violento ribasso delle quotazioni di riferimento presso l’Henry Hub (pricing point per il mercato spot e quello futures nordamericano), passate nel giro di pochi anni da 8 USD/mmbtu a 3, innescando una riorganizzazione complessiva della powergrid americana.

D’altronde, il crollo delle quotazioni del gas naturale non riesce a spiegare da solo la crisi dell’industria del carbone. Nonostante il trend ribassista, difatti, le quotazioni del gas sul mercato dell’elettricità rimangono mediamente superiori a quelle del carbone di oltre il 30%.

Pur potendo contare su una materia prima più economica, le centrali coal-fired patiscono una minore efficienza termica e una maggiore intensità di capitale, tanto nella fase di costruzione dell’impianto quanto nel corso della sua vita operativa.

Il recente sviluppo tecnologico ha ampliato questo divario, mettendo a disposizione del segmento della trasformazione elettrica del gas, centrali a ciclo combinato di nuova generazione, ancor più efficienti e con costi ancor più ridotti, amplificando l’impatto della shale revolution e attirando massicci flussi di investimenti tanto sul comparto estrattivo quando su quello della trasformazione elettrica del gas naturale.

Carbone, serve una ricetta per ripensare il settore
Per riuscire a rimanere competitiva nel lungo periodo, l’industria del carbone necessiterebbe di notevoli investimenti. Modernizzare le centrali, che mediamente hanno più di 40 anni, garantire un orizzonte di medio/lungo periodo alla ricerca scientifica e tecnologica sui processi di trasformazione e di carbon capture and storage, rendere più efficiente la rete di trasporto e trasmissione sono solo alcune delle priorità strategiche per un settore industriale che se vuole sopravvivere deve ripensare il proprio modello di business e ristrutturare il proprio tessuto produttivo.

D’altronde, gli investimenti nell’industria del carbone languono, gran parte delle compagnie elettriche ha un portafoglio energetico diversificato e in questo momento preferisce investire nel segmento del gas naturale che offre maggiori garanzie e prospettive.

Abbassando, seppur modestamente, la soglia massima di emissioni, la nuova normativa Epa non ha fatto altro che accelerare la chiusura di impianti dalle scarse prospettive, in gran parte risalenti agli anni ’50 e ’60. Ed è difficile pensare che il Presidente eletto Donald Trump potrà risollevare le sorti del settore senza riunire tutti i principali attori attorno a un tavolo, ma solo cancellando quanto fatto in materia ambientale dall’amministrazione precedente.

Enrico Mariutti, laureato in storia antica presso la Sapienza, ha conseguito un Master di II livello in Geopolitica e Sicurezza Globale; attualmente collabora con l’Istituto Alti Studi di Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG).

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