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Il presidente Obama è ormai entrato nella fase discendente della sua parabola: la sua ultima missione all’estero, in Europa per i commiati di rito e in Perù per un vertice dell’Apec, è stata un incontrarsi per dirsi addio - e per archiviare alcuni pezzi incompiuti del suo doppio mandato.
Soprattutto in Perù: la partnership trans-pacifica, Tpp, recentemente definita ma non ancora entrata in vigore, sarà infatti una delle prime vittime della nuova presidenza Trump, che ne mette l’abrogazione all’apice della lista di cose da fare nei primi cento giorni alla Casa Bianca. Nel documento pubblicato a fine Vertice, i 21 Paesi Apec s’impegnano a continuare a lavorare per un accordo di libero scambio ed a resistere “a tutte le forme di protezionismo". Trump vuole sostituire l’intesa regionale con accordi bilaterali, in cui gli Stati Uniti possano meglio fare valere il loro peso con i singoli interlocutori. E non è l’unico colpo di spugna che il neo eletto infliggerà all’eredità del suo predecessore. Mentre volava per il Perù, Obama aveva infatti battuto pugno sul tavolo del Congresso repubblicano, bloccando tutte le nuove trivellazioni nell’Artico, un ambiente “Unico e difficile”, nelle parole dell’attuale segretario agli Interni, Sally Jewell. Ma Trump metterà un rigo di penna a cancellare anche questa decisione, come pure alla sospensione del progetto del gasdotto Keystone dal Canada al Texas. Arrivederci ai giardinetti della storia In Europa, più cha addii, per Obama sono stati arrivederci: sulle panchine, ai giardinetti della storia. Quello di Berlino è stato il summit delle anitre zoppe: con la padrona di casa Angela Merkel, c’erano il presidente francese Fraçois Hollande e i premier britannico Theresa May, spagnolo Mariano Rayoj e italiano Matteo Renzi; alcuni attesi a breve da appuntamenti elettorali determinanti per la loro sopravvivenza politica, altri in condizioni di governo precarie. I leader europei erano tutti lì, con un orecchio a Washington e con un occhio a casa loro - alcuni tanto affaccendati da non essere sicuri di avere il tempo d’incontrare il presidente Trump. Il vertice è stato scandito da espressioni d’amicizia spesso sincere, sorrisi un po’ tirati, strette di mano e pacche sulle spalle: se ne va un decano della combriccola transatlantica - solo la Merkel ha un’anzianità di servizio superiore -, si chiude una pagina lunga otto anni, e se ne sta per aprire un’altra densa, per il momento, di punti interrogativi. Chi sperava che Obama spiegasse ai partner l’America che verrà è rimasto deluso (ed è ripartito preoccupato). Se l’arrivo di Trump alla Casa Bianca “non è l’apocalisse”, ma solo perché “la fine del Mondo è quando il Mondo finisce”, come ha raccontato il presidente uscente al New Yorker, l’analisi di Obama equivale a un “fin che c’è vita c’è speranza”. E l’invito a lavorare col suo successore per cercare soluzione “ai problemi comuni”, sulla base “dei valori condivisi”, suona ovvio e non troppo convinto. Obama era seduto tra la Merkel e Matteo Renzi, nel Vertice nella Cancelleria. Dall’incontro non scaturiscono decisioni, ma labili indicazioni: le sanzioni alla Russia per l’Ucraina restano, almeno fino a che Trump non s’insedierà alla Casa Bianca; e in Libia ci vuole un governo stabile. Di immigrazione, assicura la Merkel, non s’è parlato, perché gli europei non volevano affliggere Obama con lo spettacolo delle loro divisioni. La nostalgia d’Obama e l’attesa di Trump Il 45° presidente degli Stati Uniti s’insedierà formalmente alla Casa Bianca il 20 gennaio, l’Inauguration Day. Ma fin dai primi momenti dopo l’Election Day, parole e mosse del neo-eletto sono state vagliate e scrutate per cercare di capire se, e in che misura, il Trump presidente sarà diverso dal Trump candidato che ha impressionato per il suo linguaggio più brutale che franco e per le posizioni sessiste e razziste, anti-immigrati e anti-musulmani, pro-armi e pro-vita (cioè, favorevoli alla cancellazione del diritto all’aborto, restituendo agli Stati dell’Unione il compito di legiferare in merito, com’era fino al 1973). Quella certa tendenza giornalistica ad allinearsi al potere, più forte da noi che in America, alimenta, dopo l’8 novembre, l’ipotesi - e forse l’illusione - che Trump, da presidente, cambierà registro. In realtà, quasi tutte le sue prime scelte nella composizione dell’entourage e le sue dichiarazioni sono state coerenti con l’immagine e i programmi della campagna elettorale: conferma dell’intenzione d’alzare e allungare la barriera tra Stati Uniti e Messico e di espellere milioni di immigrati irregolari; conferma dell’intenzione di abrogare, almeno in parte, la riforma sanitaria del suo predecessore, che non lascia i poveri senza assistenza; conferma dell’intenzione di rimettere in discussione gli accordi commerciali esistenti o in fase di negoziato - oltre al Tpp, Trans Pacific Partnership,sul versante Pacifico, il Nafta (North American Free Trade Agreement) con Messico e Canada e il Ttip, il Transatlantic Trade and Investment Partnership, sul versante Atlantico. E mentre la scelta degli uomini dell’Amministrazione fa scorrere davanti agli occhi il film d’un’America nostalgica del segregazionismo e tutta ‘Law & Order’, ben diversa da quella d’Obama, variegata e progressista, in politica estera si profila una svolta nei rapporti con la Russia che può modificare gli equilibri in Europa e nel Medio Oriente. Il presidente siriano Bachar al-Assad saluta in Trump “un alleato naturale”, il premier israeliano Benyamin Netanyahu attende un rilancio dell’amicizia israelo-americana. Gli scongiuri della cancelliera Il viaggio di commiato di Obama in Europa - un passaggio ad Atene, prima del clou a Berlino - lascia una scia di rammarico e di preoccupazione: rammarico per l’uscita di scena di un leader carismatico e affidabile; preoccupazione per l’arrivo di un successore inesperto e inaffidabile, che, durante tutta la campagna elettorale, ha avuto poca attenzione e zero considerazione per i partner e gli alleati europei. E che, una volta eletto, si fa un baffo del protocollo e non risponde agli alleati che lo chiamano o gli scrivono. Da un consulto a caldo fra i ministri degli Esteri europei, il 13 novembre, era già emersa grande e diffusa inquietudine, sensibile specie in Polonia e nei Baltici, timorosi dell’impatto su di loro dell’eventuale riavvicinamento Usa-Russia. Una curiosità: non so come facciano gli scongiuri i tedeschi, ma di certo Angela Mekel li ha fatti, quando Obama ha detto che, “se fossi tedesco”la sosterrei” alle prossime elezioni, nel settembre 2017. Il presidente ne ha fatto un vero e proprio panegirico: “Angela ha grande credibilità ed è una donna che lotta per i valori … Non avrei potuto avere una partner più affidabile”, con buona pace di tutti gli altri che ambiscono ad essere il miglior amico europeo dell’America. La cancelliera tedesca avrà subito pensato alle recenti sortite di Obama contro la Brexit ed a favore di Hillary Clinton e avrà mormorato fra sé e sé l’equivalente tedesco del nostro “non c’è il due senza il tre”. Vero è che, di qui a settembre, ci sono altre occasioni perché il proverbio si realizzi. Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI. | ||||||||
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1 giorno fa
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