Il grande afflusso di persone verso le frontiere europee ha innescato un dibattito mediatico e politico sull’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo che vorrebbero fare ingresso nel territorio comunitario.
Sebbene l’atteggiamento solidale o meno di ognuno di noi risponda anche a motivazioni culturali, l’oggettività dei modelli economici può aiutare a far chiarezza sui possibili effetti dell’accoglienza e a scacciare i timori ad essa collegati.
In economia si discute da tempo su quali possano essere le reazioni dei mercati all’arrivo dei lavoratori immigrati. È giusto che queste analisi inizino ad essere divulgate e siano di aiuto alle scelte dei governi.
Questo è ciò per cui un nuovo gruppo di esperti capitanati da Philippe Legrain, chiamato Open Political Economy Network, si sta battendo e a cui il 18 maggio scorso il quotidianoThe Guardian ha dedicato un articolo.
Guadagni dell’immigrazione Brevemente, l’accettazione dei rifugiati costerebbe all’Europa 69mld di Euro tra il 2015 e il 2020, ma produrrebbe un aumento del Pil di 126,6mld di Euro nello stesso periodo. Questo è il risultato della simulazione fatta dal Fondo monetario internazionale, il quale ipotizza un flusso di persone pari al 2,5% dell’intera popolazione europea. In che modo questo avviene? Vediamo ora in maniera semplice quali sono i meccanismi che condurrebbero a questo guadagno netto.
Innanzitutto, la preoccupazione che gli immigrati possano ridurre il salario o le possibilità di impiego dei lavoratori nativi non trova alcun riscontro nei dati. Al contrario, l’ingresso nel mercato della forza lavoro straniera genera delle possibilità di investimento che, se sfruttate, porta all’incremento del numero totale dei posti, lasciando invariato il tasso di occupazione della popolazione ospitante.
Traducendo le parole dello stesso Legrain, possiamo dire che non esiste un numero predefinito di posti di lavoro. Questo dipende dalla grandezza dell’economia e il ritmo con cui esso aumenta va di pari passo con il tasso di crescita del sistema.
Inoltre, gli immigrati sono maggiormente disposti a svolgere mansioni manuali, spingendo i nativi verso incarichi più qualificati. Quelli che ad esempio richiedono una padronanza linguistica superiore e che corrispondono a salari più alti.
Detto diversamente, immigrati e nativi non competono nello stesso segmento di mercato. In secondo luogo, gli immigrati che vengono accolti da un paese, non solo lavorano, ma spendono anche, sostenendo le domande per consumi delle economie in crisi.
Parlando strettamente di bilanci pubblici, invece, le imposte e i contributi pagati dai lavoratori stranieri in regola sono maggiori della spesa destinata ad essi. Questo perché non conoscono e non beneficiano di tutti i servizi a disposizione della popolazione nativa. Inoltre, il gruppo degli stranieri è caratterizzato da una età media più bassa e il ringiovanimento che apportano aiuta la sostenibilità dei sistemi pensionistici.
Da rifugiati a lavoratori Per il momento, quindi l’ipotesi che i rifugiati siano un fardello economico per l’Europa è da respingere al mittente. Tuttavia, gli effetti appena descritti si realizzano a delle condizioni. Prima fra tutte è che si lasci entrare gli immigrati nella forza lavoro, trasformando la loro posizione da rifugiati a lavoratori.
Dovrebbe essere concesso di trovare un impiego anche a coloro che sono in attesa di processo della propria domanda di asilo per contribuire così alle spese dello Stato. In parole più semplici, se l’Europa non permette ai rifugiati di lavorare, si condanna da sola a sostenere il costo dell’immigrazione, come una madre che si lamenta di dover stare dietro ad un figlio che lei stessa non lascia crescere.
Più investimenti e più produzione La seconda condizione per la realizzazione di una crescita derivante dall’immigrazione riguarda un aspetto più tecnico. È importante che le imprese reagiscano all’aumento della forza lavoro effettuando nuovi investimenti. Per chi ha familiarità con i modelli economici è banale che il minor costo del lavoro immigrato dia l’incentivo a progetti imprenditoriali nuovi e più grandi, ma sa anche che questo dipende dal grado di concorrenza nel mercato. Se la competizione tra le imprese non spinge queste ultime ad ampliare la produzione, allora ciò che si realizza è una situazione di bassi salari ed alti profitti.
Legato a questo problema redistributivo vi è quello della domanda. In media, i salari sono una classe di reddito con una propensione al consumo maggiore di quella dei profitti. Questo significa che di ogni euro una parte maggiore viene consumata e una minore risparmiata. Se, perciò, si leva ai lavoratori e si dà alle imprese non si osserva l’effetto espansivo della domanda per consumi auspicato e una parte di produzione può rimanere invenduta.
In conclusione, un disegno istituzionale sbagliato può impedire che un miglioramento economico si realizzi. È giusto, perciò, che i governi prendano coscienza della risorsa che i lavoratori stranieri rappresentano e si adoperino per realizzare le giuste riforme affinché vengano integrati e favoriscano la crescita dell’intero paese che li ospita.
Rama Dasi Mariani è dottoranda di economia politica presso l’Università Sapienza di Roma. Si occupa di economia della migrazione su cui ha pubblicato diversi articoli scientifici. Attualmente sta approfondendo l’impatto dei flussi migratori sul mercato del lavoro italiano (ramadasi.mariani@uniroma1.it).
|
Nessun commento:
Posta un commento