Energia Petrolio, la difficile partita saudita a Doha Nicolò Sartori, Leonardo Giansanti 21/04/2016 |
Il timido ottimismo attorno all’esito del meeting di Doha si è scontrato, domenica pomeriggio, con il cinico realismo della principale potenza del Golfo, l'Arabia Saudita, e del suo storico rivale, l'Iran.
Gli annunci carichi di aspettative dei funzionari dell’Opec - l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio - all'indomani dell'accordo di febbraio tra Arabia Saudita, Russia, Qatar e Venezuela avevano, infatti, fatto pensare ad una revisione dell’intransigente approccio di Riad, spingendo il prezzo del Brent oltre i 40 dollari al barile, dopo il crollo di gennaio sotto la soglia dei 30 dollari.
Il risultato finale degli incontri di Doha suggerisce invece una chiara mancanza di fiducia sia tra paesi Opec e non-Opec (in Qatar erano presenti anche Azerbaijan, Messico, Oman e Russia), sia all'interno dello stesso cartello. In questo contesto, infatti, è molto difficile pensare che un singolo paese - in questo caso l'Arabia Saudita - sia disposto a modellare la propria strategia energetica e a sobbarcarsi una serie di costi extra, in funzione degli interessi di altri paesi concorrenti.
La posizione di Riad
L'Arabia Saudita, va ricordato, avrebbe - come la stragrande maggioranza dei paesi esportatori - un chiaro interesse a incrementare i propri introiti petroliferi grazie all'innalzamento dei prezzi. In primo luogo, ciò permetterebbe di mantenere alti i livelli di spesa pubblica e garantire sia le tradizionali forme di sussidio socio-economico riservate alla popolazione, sia il funzionamento del massiccio apparato militare e di polizia. In seconda battuta, esso renderebbe possibile continuare a drenare miliardi di petrodollari verso i propri alleati internazionali - statuali e non - sparsi in tutto il mondo.
Ma, oltre a questo, la verità è che la petromonarchia wahabbita teme che un suo approccio compromissorio sui tagli alla produzione potrebbe non risultare necessariamente in un aumento delle entrate petrolifere ma altresì portare alla perdita di quote di mercato, favorendo pratiche di free riding da parte di competitor Opec e non, così soprattutto spianando la strada al rilancio economico (e potenzialmente anche politico) del suo principale rivale regionale, l’Iran.
In passato, il regime saudita è rimasto scottato da dinamiche simili, come durante lo shock petrolifero degli anni ’80, quando il re Saud avallò l'abbattimento dei livelli produttivi in concerto con gli altri paesi Opec, che tuttavia non rispettarono l’accordo facendo crollare il prezzo a 10 dollari al barile e costringendo l'Arabia Saudita a inondare il mercato del suo petrolio.
Dinamiche simili si sono verificate nel 2001 quando paesi non-Opec come Russia, Messico, Oman, Angola e Norvegia promisero una riduzione complessiva della produzione, ma nel giro di pochi mesi Mosca si trovò ad aver aumentato in modo sostanziale il proprio output.
Il nodo Iran
Alla luce di questi ragionamenti, come emerso a Doha, la monarchia saudita subordina il congelamento dei livelli produttivi al coinvolgimento dell'Iran in un eventuale accordo. Il recupero della legittimità internazionale da parte dell'Iran rappresenta una chiara minaccia strategica per Riad e per il suo status di potenza regionale nel Golfo Persico. Il successo dei negoziati sul nucleare e l'alleviamento delle sanzioni internazionali permettono al regime degli ayatollah di giocare un ruolo di primo piano sui mercati internazionali, con un effetto destabilizzante anche all'interno dell'Opec.
Come dimostrato dall’esito del vertice in Qatar, Teheran - che non ha alcuna intenzione di limitare la ripresa del proprio settore petrolifero, rivendicando anzi il diritto a tornare a livelli di produzione pre-sanzioni - appare sempre più in grado di incrinare i già deboli meccanismi di coordinamento in seno all'organizzazione, mettendo in luce le difficoltà della leadership saudita a guidare il gruppo dei paesi produttori.
Di fatto, l’atteggiamento intransigente dei sauditi durante il vertice straordinario, poiché la posizione iraniana sul proprio contributo al congelamento della produzione era chiara da tempo, ha alimentato il disappunto dei partecipanti, inclusi gli alleati più stretti di Riad nella regione.
L’impatto della sfida con Teheran
È evidente come al fallimento dei negoziati di Doha seguirà inevitabilmente un ulteriore drenaggio di risorse finanziarie per i paesi produttori, i quali hanno avviato quasi all’unanimità forme più o meno strutturate di revisione della spesa pubblica e delle politiche fiscali nazionali.
Questa situazione potrebbe determinare una destabilizzazione della situazione socio-politica interna ad alcuni di questi paesi, come dimostrato dagli scioperi dei lavoratori del settore petrolifero in Kuwait: proteste che nel giro di tre giorni hanno di fatto dimezzato la produzione dell’emirato (e fatto risalire i prezzi del greggio).
Al contempo, le divergenze sancite dal vertice straordinario potrebbero riaccendere la rivalità tra i due grandi attori regionali nel quadrante medio orientale, creando i presupposti per possibili escalation nei teatri geopolitici più caldi, come il Bahrein, il Libano, la Siria e lo Yemen.
Tra le pieghe del conflitto di matrice religiosa tra sciiti e sunniti che attraversa il Medio Oriente, la sfida esplicita dell’Iran alla leadership saudita nella regione -palesatasi con l’assenza al vertice di Doha - contribuisce ad accrescere le tensioni in un’area già profondamente instabile.
A livello globale, l’esito di Doha contribuisce a rimescolare le carte dei maggiori player seduti al tavolo energetico, con l’Arabia Saudita che ne esce particolarmente indebolita. Gli Stati Uniti, maggiori responsabili degli attuali livelli dei prezzi in virtù della rivoluzione dello shale, avrebbero visto di buon occhio lo sforzo dello storico alleato per assicurare il raggiungimento di un accordo formale.
Tuttavia, anche alla luce dell’avvicinamento di Washington a Teheran, l’allineamento tra americani e sauditi appare quanto mai in discussione. Divergenze con Riad rese esplicite dalla Russia, che non ha nascosto la propria amarezza per il buco nell’acqua del vertice straordinario, individuando nell’atteggiamento saudita la causa principale del non-risultato conseguito. L’Iran, rimasto strategicamente alla finestra, per ora ringrazia.
Nicolò Sartori è Responsabile di ricerca e Coordinatore del Programma Energia dello IAI. Leonardo Giansanti è Tirocinante presso il Programma Energia dello IAI.
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Il risultato finale degli incontri di Doha suggerisce invece una chiara mancanza di fiducia sia tra paesi Opec e non-Opec (in Qatar erano presenti anche Azerbaijan, Messico, Oman e Russia), sia all'interno dello stesso cartello. In questo contesto, infatti, è molto difficile pensare che un singolo paese - in questo caso l'Arabia Saudita - sia disposto a modellare la propria strategia energetica e a sobbarcarsi una serie di costi extra, in funzione degli interessi di altri paesi concorrenti.
La posizione di Riad
L'Arabia Saudita, va ricordato, avrebbe - come la stragrande maggioranza dei paesi esportatori - un chiaro interesse a incrementare i propri introiti petroliferi grazie all'innalzamento dei prezzi. In primo luogo, ciò permetterebbe di mantenere alti i livelli di spesa pubblica e garantire sia le tradizionali forme di sussidio socio-economico riservate alla popolazione, sia il funzionamento del massiccio apparato militare e di polizia. In seconda battuta, esso renderebbe possibile continuare a drenare miliardi di petrodollari verso i propri alleati internazionali - statuali e non - sparsi in tutto il mondo.
Ma, oltre a questo, la verità è che la petromonarchia wahabbita teme che un suo approccio compromissorio sui tagli alla produzione potrebbe non risultare necessariamente in un aumento delle entrate petrolifere ma altresì portare alla perdita di quote di mercato, favorendo pratiche di free riding da parte di competitor Opec e non, così soprattutto spianando la strada al rilancio economico (e potenzialmente anche politico) del suo principale rivale regionale, l’Iran.
In passato, il regime saudita è rimasto scottato da dinamiche simili, come durante lo shock petrolifero degli anni ’80, quando il re Saud avallò l'abbattimento dei livelli produttivi in concerto con gli altri paesi Opec, che tuttavia non rispettarono l’accordo facendo crollare il prezzo a 10 dollari al barile e costringendo l'Arabia Saudita a inondare il mercato del suo petrolio.
Dinamiche simili si sono verificate nel 2001 quando paesi non-Opec come Russia, Messico, Oman, Angola e Norvegia promisero una riduzione complessiva della produzione, ma nel giro di pochi mesi Mosca si trovò ad aver aumentato in modo sostanziale il proprio output.
Il nodo Iran
Alla luce di questi ragionamenti, come emerso a Doha, la monarchia saudita subordina il congelamento dei livelli produttivi al coinvolgimento dell'Iran in un eventuale accordo. Il recupero della legittimità internazionale da parte dell'Iran rappresenta una chiara minaccia strategica per Riad e per il suo status di potenza regionale nel Golfo Persico. Il successo dei negoziati sul nucleare e l'alleviamento delle sanzioni internazionali permettono al regime degli ayatollah di giocare un ruolo di primo piano sui mercati internazionali, con un effetto destabilizzante anche all'interno dell'Opec.
Come dimostrato dall’esito del vertice in Qatar, Teheran - che non ha alcuna intenzione di limitare la ripresa del proprio settore petrolifero, rivendicando anzi il diritto a tornare a livelli di produzione pre-sanzioni - appare sempre più in grado di incrinare i già deboli meccanismi di coordinamento in seno all'organizzazione, mettendo in luce le difficoltà della leadership saudita a guidare il gruppo dei paesi produttori.
Di fatto, l’atteggiamento intransigente dei sauditi durante il vertice straordinario, poiché la posizione iraniana sul proprio contributo al congelamento della produzione era chiara da tempo, ha alimentato il disappunto dei partecipanti, inclusi gli alleati più stretti di Riad nella regione.
L’impatto della sfida con Teheran
È evidente come al fallimento dei negoziati di Doha seguirà inevitabilmente un ulteriore drenaggio di risorse finanziarie per i paesi produttori, i quali hanno avviato quasi all’unanimità forme più o meno strutturate di revisione della spesa pubblica e delle politiche fiscali nazionali.
Questa situazione potrebbe determinare una destabilizzazione della situazione socio-politica interna ad alcuni di questi paesi, come dimostrato dagli scioperi dei lavoratori del settore petrolifero in Kuwait: proteste che nel giro di tre giorni hanno di fatto dimezzato la produzione dell’emirato (e fatto risalire i prezzi del greggio).
Al contempo, le divergenze sancite dal vertice straordinario potrebbero riaccendere la rivalità tra i due grandi attori regionali nel quadrante medio orientale, creando i presupposti per possibili escalation nei teatri geopolitici più caldi, come il Bahrein, il Libano, la Siria e lo Yemen.
Tra le pieghe del conflitto di matrice religiosa tra sciiti e sunniti che attraversa il Medio Oriente, la sfida esplicita dell’Iran alla leadership saudita nella regione -palesatasi con l’assenza al vertice di Doha - contribuisce ad accrescere le tensioni in un’area già profondamente instabile.
A livello globale, l’esito di Doha contribuisce a rimescolare le carte dei maggiori player seduti al tavolo energetico, con l’Arabia Saudita che ne esce particolarmente indebolita. Gli Stati Uniti, maggiori responsabili degli attuali livelli dei prezzi in virtù della rivoluzione dello shale, avrebbero visto di buon occhio lo sforzo dello storico alleato per assicurare il raggiungimento di un accordo formale.
Tuttavia, anche alla luce dell’avvicinamento di Washington a Teheran, l’allineamento tra americani e sauditi appare quanto mai in discussione. Divergenze con Riad rese esplicite dalla Russia, che non ha nascosto la propria amarezza per il buco nell’acqua del vertice straordinario, individuando nell’atteggiamento saudita la causa principale del non-risultato conseguito. L’Iran, rimasto strategicamente alla finestra, per ora ringrazia.
Nicolò Sartori è Responsabile di ricerca e Coordinatore del Programma Energia dello IAI. Leonardo Giansanti è Tirocinante presso il Programma Energia dello IAI.
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