Crisi dell’eurozona L’autocritica del fondo monetario e la lezione greca Lorenzo Bini Smaghi 13/06/2013 |
Il rapporto del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) sull’attuazione del programma di aggiustamento della Grecia è stato interpretato da molti commentatori ed esponenti politici, in particolare in Italia, come una critica alle politiche di austerità attuate negli ultimi anni in Europa. Forse il documento, che è stato pubblicato all’inizio di giugno, non è stato letto con sufficiente attenzione.
Il rapporto del Fmi pone in modo esplicito la questione se il risanamento fiscale in Grecia avrebbe dovuto essere più graduale. La risposta è negativa. L’aggiustamento del saldo primario (14,5% del Pil) era “il minimo necessario per ridurre il debito al 120% del Prodotto entro il 2020”. Un aggiustamento più graduale avrebbe richiesto peraltro un ammontare maggiore di aiuti, rispetto ai 110 miliardi di euro previsti nel primo pacchetto finanziario, dei quali i 30 miliardi a carico del Fmi “rappresentavano già il prestito più elevato mai concesso dal Fondo”.
Moltiplicatore fiscale
Che alternative c’erano dunque? Il Fondo suggerisce che si sarebbe potuto procedere con una ristrutturazione del debito greco, sin dal maggio 2010.
La ristrutturazione del debito viene decisa quando è evidente che il debito non è più sostenibile. La valutazione della sostenibilità del debito è un esercizio complesso, che si basa inevitabilmente su ipotesi che riguardano non solo l’efficacia delle misure di risanamento ma anche la capacità e la volontà delle autorità del paese di metterle in atto.
Un’ipotesi fondamentale riguarda l’impatto delle misure di risanamento fiscale sulla crescita, in altre parole il moltiplicatore fiscale. Se il moltiplicatore è superiore a 1, una politica fiscale restrittiva riduce il prodotto lordo in modo più che proporzionale e fa pertanto salire il debito pubblico. Nel caso greco, il moltiplicatore fiscale è stato chiaramente sottostimato. Questo emerge anche da altri studi svolti di recente dal Fmi.
Per trarne delle conseguenze per il futuro, bisogna capire se la sottostima del moltiplicatore sia stata dovuta al modo in cui è stato disegnato il programma di aggiustamento o al modo in cui esso è stato messo in pratica dalle autorità del paese. Il documento del Fondo contiene alcune considerazioni utili al riguardo.
Errori ed omissioni
Sono stati sicuramente fatti degli errori nella configurazione del programma. Ciò è derivato in parte dalla scoperta che il disavanzo pubblico per il 2009 non era pari al 6% del prodotto, come era stato previsto dallo stesso Fmi nella prima metà di quell’anno, ma a oltre il doppio. Parte dell’errore è stato fatto nella fase di sorveglianza della situazione greca, che per anni ha sopravvalutato lo stato di salute di quella economia.
Inoltre, le condizioni iniziali del prestito erano troppo penalizzanti, in termini di durata e di tasso di interesse, perché tarate sulle procedure standard del Fmi che non tenevano sufficientemente conto delle peculiarità di un paese partecipante a una unione monetaria.
Il punto cruciale, tuttavia, è che il programma non è stato implementato dalle autorità greche come inizialmente previsto. Il documento del Fondo enumera una serie di manchevolezze. Le privatizzazioni non sono mai partite. Le misure di lotta all’evasione non sono state attuate. L’aggiustamento fiscale è avvenuto in larga parte dal lato delle entrate. Le riforme strutturali sono state sistematicamente rinviate. La ricapitalizzazione del sistema bancario è stata effettuata troppo tardi, alimentando la fuoriuscita di depositi. La lista è lunga.
Il documento del Fondo riconosce che in realtà non c’era un sufficiente consenso bipartisan nel paese, tale da consentire una implementazione efficace delle misure. L’amministrazione pubblica è riuscita ad ostacolare le riforme. In sintesi, il paese non aveva una struttura decisionale capace di mettere in atto gli impegni sottoscritti.
La mancanza di coesione sociale e lo stato di arretratezza dell’infrastruttura amministrativa della Grecia sono stati sottostimati. Questa è stata la grande differenza rispetto all’Irlanda e al Portogallo, che spiega anche i diversi risultati. D’altra parte, anche se il Fondo monetario e l’Unione europea fossero stati a conoscenza di tali problemi, cosa avrebbero dovuto fare? Non avrebbero forse dovuto fidarsi del governo e del parlamento greco, quando questi sottoscrivevano ufficialmente i loro impegni?
Queste domande aprono quesiti ancor più complessi sul ruolo che possono svolgere le istituzioni sovranazionali e i rapporti con stati sovrani.
L’impatto devastante di una ristrutturazione del debito
Quando il paese non è in grado di effettuare l’aggiustamento necessario, e tale aggiustamento non può essere diluito, non rimane che la ristrutturazione del debito. Nel caso della Grecia, il rapporto del Fmi suggerisce che la ristrutturazione avrebbe potuto avvenire prima. Non fornisce tuttavia gli elementi per valutare i costi e benefici di una tale soluzione. Un motivo è che non ci sono precedenti. Quelli menzionati nel documento non sono rilevanti. La ristrutturazione dell’Uruguay, avvenuta nel 2001, ha comportato una perdita contenuta per gli investitori, di poco oltre il 10%, ed è stata facilmente concordata con le controparti estere.
La Giamaica, che ha ristrutturato il proprio debito nel 2011, non è comparabile alla Grecia, come non lo è l’Islanda, che ha potuto penalizzare i creditori esteri e salvaguardare quelli nazionali, cosa che non è possibile fare all’interno dell’Unione monetaria. La cosiddetta iniziativa di Vienna, che viene menzionata nel rapporto del Fmi, è stata messa in atto nei confronti dei paesi dell’Est per mantenere le linee di credito bancarie degli altri paesi europei, che nel caso greco non esistevano.
La difficoltà più rilevante, nel caso greco, è che una larga parte del debito pubblico - circa il 100% del prodotto nel 2009 - è detenuta da residenti, in particolare dalle banche. Una ristrutturazione che comporta una forte riduzione del valore effettivo del debito colpisce i risparmi di un’ampia fascia della popolazione greca - quella più debole - e mette in ginocchio il sistema finanziario. Le esigenze di ricapitalizzazione attraverso fondi pubblici - presi a prestito dalla comunità internazionale - fanno aumentare il debito esterno e compensano in larga parte il risparmio ottenuto dalla ristrutturazione. La perdita di valore dei titoli pubblici si ripercuote direttamente su tutti gli altri valori mobiliari del paese, con un impatto fortemente recessivo.
La questione che non viene sufficientemente esaminata è se l’impatto restrittivo di una ristrutturazione del debito è maggiore o minore di quello provocato dalle misure di risanamento contenute nel programma di aggiustamento. L’evidenza disponibile sull’evoluzione dell’economia greca non sembra mostrare che il moltiplicatore fiscale si sia ridotto dopo la ristrutturazione effettuata nel 2011.
Infine, la ristrutturazione del debito pubblico di un paese contagia il resto dell’area. Quando l’ipotesi di ristrutturazione del debito greco ha cominciato ad essere discussa, nella primavera del 2011, i timori che anche altri paesi potessero seguire la stessa via ha subito fatto salire i rendimenti sui titoli di stato italiani e spagnoli, fin quando non è intervenuta la Banca centrale europea, nell’agosto 2011.
Effetto domino
Se la ristrutturazione greca fosse stata avviata nel maggio 2010, prima della creazione del Fondo Salva Stati, il contagio non avrebbe potuto essere evitato e avrebbe provocato la ristrutturazione anche in altri paesi, con perdite rilevanti per i loro risparmiatori. L’integrità dell’euro sarebbe stata messa in pericolo. L’impatto sui mercati internazionali sarebbe stato devastante.
Il rischio maggiore è che si diffonda sui mercati internazionali la percezione che dopo l’esperienza greca i governi dei paesi dell’euro siano sempre più tentati da una ristrutturazione preventiva del debito pubblico, nell’illusione che ciò rappresenti una scorciatoia per risolvere le loro difficoltà.
Si riprodurrebbero i danni fatti nell’ottobre 2010 dall’accordo di Deauville tra Nicholas Sarkozy e Angela Merkel, poi sottoscritto anche dagli altri capi di governo, sul coinvolgimento dei creditori privati negli aiuti ai paesi in difficoltà. Il premio di rischio sui titoli di stato dei paesi in difficoltà salirebbe immediatamente, aumentando l’onere sul debito pubblico e indebolendo il loro sistema bancario, con effetti a catena sul credito alle famiglie e imprese di quei paesi. Il rischio di ristrutturazione del debito alimenterebbe immediatamente una fuga dai titoli di stato dei paesi più fragili.
Sfida per l’Europa
Contrariamente a quanto è stato scritto in questi giorni, le conclusioni del documento del Fmi devono destare preoccupazione nei paesi europei, soprattutto quelli periferici. Quel rapporto non rimette infatti in discussione la necessità del risanamento fiscale ma la capacità di attuarlo in modo efficace e politicamente accettabile. Sottolinea inoltre la necessità di condurre d’ora in poi analisi più rigorose della sostenibilità del debito dei paesi maggiormente indebitati, sulla base di ipotesi più credibili riguardo l’impatto delle misure restrittive, soprattutto quando non accompagnate da riforme, e la capacità e volontà dei paesi di implementarle. Se tale analisi non dà indicazioni chiare di sostenibilità, verrà raccomandato di procedere alla ristrutturazione del debito, prima piuttosto che dopo.
L’impatto economico di tale ristrutturazione è fortemente recessivo. Viene ridimensionata la ricchezza delle famiglie e messa a repentaglio la stabilità finanziaria. Tale effetto è tanto più forte quanto più alta è la quota di debito pubblico detenuta dai residenti. Le ripercussioni sociali sono imprevedibili. L’evidenza storica mostra peraltro che difficilmente i governi democratici sopravvivono alla ristrutturazione del debito e che quei paesi spesso precipitano nel caos. La Grecia, nel 2012, ci è andata molto vicina.
L’autocritica del Fondo monetario, se di autocritica si tratta, rischia di costare caro ai paesi europei.
Lorenzo Bini Smaghi è presidente Snam e senior visiting fellow dello IAI.
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Il rapporto del Fmi pone in modo esplicito la questione se il risanamento fiscale in Grecia avrebbe dovuto essere più graduale. La risposta è negativa. L’aggiustamento del saldo primario (14,5% del Pil) era “il minimo necessario per ridurre il debito al 120% del Prodotto entro il 2020”. Un aggiustamento più graduale avrebbe richiesto peraltro un ammontare maggiore di aiuti, rispetto ai 110 miliardi di euro previsti nel primo pacchetto finanziario, dei quali i 30 miliardi a carico del Fmi “rappresentavano già il prestito più elevato mai concesso dal Fondo”.
Moltiplicatore fiscale
Che alternative c’erano dunque? Il Fondo suggerisce che si sarebbe potuto procedere con una ristrutturazione del debito greco, sin dal maggio 2010.
La ristrutturazione del debito viene decisa quando è evidente che il debito non è più sostenibile. La valutazione della sostenibilità del debito è un esercizio complesso, che si basa inevitabilmente su ipotesi che riguardano non solo l’efficacia delle misure di risanamento ma anche la capacità e la volontà delle autorità del paese di metterle in atto.
Un’ipotesi fondamentale riguarda l’impatto delle misure di risanamento fiscale sulla crescita, in altre parole il moltiplicatore fiscale. Se il moltiplicatore è superiore a 1, una politica fiscale restrittiva riduce il prodotto lordo in modo più che proporzionale e fa pertanto salire il debito pubblico. Nel caso greco, il moltiplicatore fiscale è stato chiaramente sottostimato. Questo emerge anche da altri studi svolti di recente dal Fmi.
Per trarne delle conseguenze per il futuro, bisogna capire se la sottostima del moltiplicatore sia stata dovuta al modo in cui è stato disegnato il programma di aggiustamento o al modo in cui esso è stato messo in pratica dalle autorità del paese. Il documento del Fondo contiene alcune considerazioni utili al riguardo.
Errori ed omissioni
Sono stati sicuramente fatti degli errori nella configurazione del programma. Ciò è derivato in parte dalla scoperta che il disavanzo pubblico per il 2009 non era pari al 6% del prodotto, come era stato previsto dallo stesso Fmi nella prima metà di quell’anno, ma a oltre il doppio. Parte dell’errore è stato fatto nella fase di sorveglianza della situazione greca, che per anni ha sopravvalutato lo stato di salute di quella economia.
Inoltre, le condizioni iniziali del prestito erano troppo penalizzanti, in termini di durata e di tasso di interesse, perché tarate sulle procedure standard del Fmi che non tenevano sufficientemente conto delle peculiarità di un paese partecipante a una unione monetaria.
Il punto cruciale, tuttavia, è che il programma non è stato implementato dalle autorità greche come inizialmente previsto. Il documento del Fondo enumera una serie di manchevolezze. Le privatizzazioni non sono mai partite. Le misure di lotta all’evasione non sono state attuate. L’aggiustamento fiscale è avvenuto in larga parte dal lato delle entrate. Le riforme strutturali sono state sistematicamente rinviate. La ricapitalizzazione del sistema bancario è stata effettuata troppo tardi, alimentando la fuoriuscita di depositi. La lista è lunga.
Il documento del Fondo riconosce che in realtà non c’era un sufficiente consenso bipartisan nel paese, tale da consentire una implementazione efficace delle misure. L’amministrazione pubblica è riuscita ad ostacolare le riforme. In sintesi, il paese non aveva una struttura decisionale capace di mettere in atto gli impegni sottoscritti.
La mancanza di coesione sociale e lo stato di arretratezza dell’infrastruttura amministrativa della Grecia sono stati sottostimati. Questa è stata la grande differenza rispetto all’Irlanda e al Portogallo, che spiega anche i diversi risultati. D’altra parte, anche se il Fondo monetario e l’Unione europea fossero stati a conoscenza di tali problemi, cosa avrebbero dovuto fare? Non avrebbero forse dovuto fidarsi del governo e del parlamento greco, quando questi sottoscrivevano ufficialmente i loro impegni?
Queste domande aprono quesiti ancor più complessi sul ruolo che possono svolgere le istituzioni sovranazionali e i rapporti con stati sovrani.
L’impatto devastante di una ristrutturazione del debito
Quando il paese non è in grado di effettuare l’aggiustamento necessario, e tale aggiustamento non può essere diluito, non rimane che la ristrutturazione del debito. Nel caso della Grecia, il rapporto del Fmi suggerisce che la ristrutturazione avrebbe potuto avvenire prima. Non fornisce tuttavia gli elementi per valutare i costi e benefici di una tale soluzione. Un motivo è che non ci sono precedenti. Quelli menzionati nel documento non sono rilevanti. La ristrutturazione dell’Uruguay, avvenuta nel 2001, ha comportato una perdita contenuta per gli investitori, di poco oltre il 10%, ed è stata facilmente concordata con le controparti estere.
La Giamaica, che ha ristrutturato il proprio debito nel 2011, non è comparabile alla Grecia, come non lo è l’Islanda, che ha potuto penalizzare i creditori esteri e salvaguardare quelli nazionali, cosa che non è possibile fare all’interno dell’Unione monetaria. La cosiddetta iniziativa di Vienna, che viene menzionata nel rapporto del Fmi, è stata messa in atto nei confronti dei paesi dell’Est per mantenere le linee di credito bancarie degli altri paesi europei, che nel caso greco non esistevano.
La difficoltà più rilevante, nel caso greco, è che una larga parte del debito pubblico - circa il 100% del prodotto nel 2009 - è detenuta da residenti, in particolare dalle banche. Una ristrutturazione che comporta una forte riduzione del valore effettivo del debito colpisce i risparmi di un’ampia fascia della popolazione greca - quella più debole - e mette in ginocchio il sistema finanziario. Le esigenze di ricapitalizzazione attraverso fondi pubblici - presi a prestito dalla comunità internazionale - fanno aumentare il debito esterno e compensano in larga parte il risparmio ottenuto dalla ristrutturazione. La perdita di valore dei titoli pubblici si ripercuote direttamente su tutti gli altri valori mobiliari del paese, con un impatto fortemente recessivo.
La questione che non viene sufficientemente esaminata è se l’impatto restrittivo di una ristrutturazione del debito è maggiore o minore di quello provocato dalle misure di risanamento contenute nel programma di aggiustamento. L’evidenza disponibile sull’evoluzione dell’economia greca non sembra mostrare che il moltiplicatore fiscale si sia ridotto dopo la ristrutturazione effettuata nel 2011.
Infine, la ristrutturazione del debito pubblico di un paese contagia il resto dell’area. Quando l’ipotesi di ristrutturazione del debito greco ha cominciato ad essere discussa, nella primavera del 2011, i timori che anche altri paesi potessero seguire la stessa via ha subito fatto salire i rendimenti sui titoli di stato italiani e spagnoli, fin quando non è intervenuta la Banca centrale europea, nell’agosto 2011.
Effetto domino
Se la ristrutturazione greca fosse stata avviata nel maggio 2010, prima della creazione del Fondo Salva Stati, il contagio non avrebbe potuto essere evitato e avrebbe provocato la ristrutturazione anche in altri paesi, con perdite rilevanti per i loro risparmiatori. L’integrità dell’euro sarebbe stata messa in pericolo. L’impatto sui mercati internazionali sarebbe stato devastante.
Il rischio maggiore è che si diffonda sui mercati internazionali la percezione che dopo l’esperienza greca i governi dei paesi dell’euro siano sempre più tentati da una ristrutturazione preventiva del debito pubblico, nell’illusione che ciò rappresenti una scorciatoia per risolvere le loro difficoltà.
Si riprodurrebbero i danni fatti nell’ottobre 2010 dall’accordo di Deauville tra Nicholas Sarkozy e Angela Merkel, poi sottoscritto anche dagli altri capi di governo, sul coinvolgimento dei creditori privati negli aiuti ai paesi in difficoltà. Il premio di rischio sui titoli di stato dei paesi in difficoltà salirebbe immediatamente, aumentando l’onere sul debito pubblico e indebolendo il loro sistema bancario, con effetti a catena sul credito alle famiglie e imprese di quei paesi. Il rischio di ristrutturazione del debito alimenterebbe immediatamente una fuga dai titoli di stato dei paesi più fragili.
Sfida per l’Europa
Contrariamente a quanto è stato scritto in questi giorni, le conclusioni del documento del Fmi devono destare preoccupazione nei paesi europei, soprattutto quelli periferici. Quel rapporto non rimette infatti in discussione la necessità del risanamento fiscale ma la capacità di attuarlo in modo efficace e politicamente accettabile. Sottolinea inoltre la necessità di condurre d’ora in poi analisi più rigorose della sostenibilità del debito dei paesi maggiormente indebitati, sulla base di ipotesi più credibili riguardo l’impatto delle misure restrittive, soprattutto quando non accompagnate da riforme, e la capacità e volontà dei paesi di implementarle. Se tale analisi non dà indicazioni chiare di sostenibilità, verrà raccomandato di procedere alla ristrutturazione del debito, prima piuttosto che dopo.
L’impatto economico di tale ristrutturazione è fortemente recessivo. Viene ridimensionata la ricchezza delle famiglie e messa a repentaglio la stabilità finanziaria. Tale effetto è tanto più forte quanto più alta è la quota di debito pubblico detenuta dai residenti. Le ripercussioni sociali sono imprevedibili. L’evidenza storica mostra peraltro che difficilmente i governi democratici sopravvivono alla ristrutturazione del debito e che quei paesi spesso precipitano nel caos. La Grecia, nel 2012, ci è andata molto vicina.
L’autocritica del Fondo monetario, se di autocritica si tratta, rischia di costare caro ai paesi europei.
Lorenzo Bini Smaghi è presidente Snam e senior visiting fellow dello IAI.
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