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LIMES, Rivista Italiana di Geopolitica

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venerdì 31 gennaio 2014

Europa: la difficile situazione in Ucraina

Ucraina
Tra Europa e Eurasia, Kiev al bivio
Gian Luca Bertinetto
14/01/2014
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Le manifestazioni di Euro Maidan sono state scatenate dal voltafaccia finale del governo ucraino sull’accordo di libero scambio con l’Unione Europea, ma la protesta è il risultato anche di altri fattori.

Nei primi tre anni del governo del presidente ucraino Viktor Yanukovich non c’erano state proteste di massa, perché l’opinione pubblica era rimasta delusa dai seguiti della rivoluzione arancione del 2006.

Progressivamente però, il nuovo regime si era fatto prepotente, la corruzione più evidente. Era ripreso l’andazzo post sovietico di inchieste e condanne ordinate dal ministro degli Interni contro i leader scomodi dell’opposizione, a partire da Yulia Timoschenko.

La protesta covava ed è scattata come una ribellione di giovani e studenti, contro un regime visto come retrogrado e corrotto.Un elemento importante è stata la partecipazione in massa di piccoli e medi imprenditori.

Voglia di Europa
Le forze politiche che sostengono la protesta, come spesso avviene in Ucraina, sono abbastanza eterogenee, ma la richiesta di Europa, comune a tutti, è motivata dall’aspettativa che l’integrazione europea possa dare una spinta decisiva alle riforme economiche, sociali e politiche, necessarie per completare la trasformazione dell’Ucraina da paese post-sovietico in una moderna democrazia europea.

L’accordo con l’Ue, pronto per la firma il 29 novembre, era stato negoziato per due anni. Era stato accettato, non senza reticenze, dai maggiori paesi dell’Unione.Tutte le ambasciate ucraine in Europa si erano date da fare fino all’ultimo per facilitare la firma.

Che cosa ha determinato l’improvviso rifiuto di Yanukovich? Vi sono indicazioni che il presidente ucraino avesse forti riserve sull’accordo ed abbia utilizzato il negoziato con l’Ue per ottenere concessioni economiche dalla Russia.

Dal canto suo, il presidente russo Vladimir Putin esercitava da tempo forti pressioni per riportare l’Ucraina nell’orbita di Mosca e le aveva accentuate recentemente, per impedire ad ogni costo l’accordo con l’Ue. Gli elementi più filo russi nella compagine governativa sembrano aver preso il sopravvento al momento decisivo.

Asimmetria europea
Per questo, negli slogan di Euro Maidan l’appello all’Europa è unito alla rivendicazione dell’indipendenza ucraina. Il problema è che su questo punto gli ucraini non sono d’accordo fra di loro. Una consistente minoranza si sente più attratta dalla Russia che dall’Europa occidentalee, soprattutto nel sud-est del paese, teme i riflessi economici di un distacco.

Sono riemerse anche vecchie polemiche, in relazione ai movimenti indipendentisti ucraini della seconda guerra mondiale, ed al controverso loro leader Stepan Bandera.

Questi problemi interni ucraini si inseriscono in una situazione geopolitica europea asimmetrica. Da una parte la Russia di Putin è impegnata nello sforzo per recuperare o mantenere il suo status di “grande potenza” e da un paio d’anni è tornata in forze sulla scena internazionale. Dall’altra, l’Ue può trovare un’unità d’intenti nella sua azione esterna, soprattutto in questo momento di incertezza e di crisi, solo sulla base degli ideali da cui trae la sua ragione di essere.

Prospettive diverse
La prospettiva rischia spesso di essere diversa, da Mosca o da Bruxelles. L’espansione dell’Ue e dello Nata fino ai suoi confini, dopo la fine della guerra fredda, può essere apparsa alla Russia come una minaccia.

Dal punto di vista europeo però, i paesi dell’Europa orientale avevano diritto ad entrare nell’Ue, in quanto europei e democratici, in base ai Trattati di Roma e di Lisbona. L’ingresso di tutti questi paesi nella Nato non era altrettanto scontato, ma è risultato inevitabile, per l’attrattiva che aveva su di loro (per ovvie ragioni) un’alleanza difensiva che aveva dimostrato tale efficacia.

Vari incidenti di percorso, come il Kosovo e la Georgia, sono stati percepiti in maniera differente dalla Russia e dall’Occidente.

Visto da Mosca, lo spazio ex sovietico (pudicamente designato “estero vicino”) appare come un’area d’influenza esclusiva della Russia. Affiora facilmente nel senso nazionale dei russi la percezione che l’Ucraina appartenga a Mosca per ragioni storiche, culturali e religiose, oltre che economiche e strategiche.

Da parte europea, il caso dei paesi baltici, invasi dall’Urss nel 1939 a seguito del patto Ribbentrop-Molotov, è visto come analogo a quello dei paesi occupati dall’Urss dopo la seconda guerra mondiale, mentre l’Ucraina e tutte le altre Repubbliche europee ex sovietiche sono viste con maggiore distacco.

A nessuna di esse erano mai state fatte promesse di liberazione, anche solo implicite, ai tempi della guerra fredda. Anzi, la repressione sovietica nei territori occidentali dell’Ucraina ha potuto proseguire per tutti gli anni ’50 e oltre senza che l’Occidente fiatasse.

Bruxelles prudente
Da oltre venti anni l’Ucraina è però un paese indipendente e ha mostrato di volersi avvicinare all’Europa. Bruxelles si è mosso con prudenza. Solo recentemente aveva acconsentito ad aprire negoziati con l’Ucraina e le altre quattro Repubbliche europee dell’ex Urss, nel quadro del Partenariato orientale.

I media russi hanno denunciato interferenze inaccettabili da parte di esponenti americani ed europei, soprattutto polacchi e baltici, ma in realtà i responsabili delle istituzioni europee hanno rilasciato solo dichiarazioni piuttosto caute, per non suscitare la suscettibilità di Mosca.

Spetta all’Ucraina scegliere liberamente se impegnarsi nella prospettiva europea, realizzando le necessarie riforme sul piano della democrazia, del sistema giudiziario, del governo dell’economia.

Quando l’Armenia ha posto improvvisamente fine al negoziato del Partenariato orientale, dopo un incontro del presidente armeno con Putin, l’Europa non ha fiatato. Per l’Ucraina, all’appuntamento di Vilnius tutto era pronto per la firma. Era stata concordata anche una scappatoia per il problema Tymoschenko.

La conclusione, per ora, sembra essere che il voltafaccia del governo di Kiev ha fatto perdere all’Ucraina una grande occasione.

L’opposizione filo-europea punta sulle prossime elezioni presidenziali, ma le clausole implicite negli accordi fra Putin e Yanukovich potrebbero rendere difficilmente reversibile, entro 12 o 18 mesi, l’inclusione dell’Ucraina nella “unione euro-asiatica”.

Gian Luca Bertinetto è Ambasciatore d’Italia.
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mercoledì 29 gennaio 2014

Paolo Sellari: geopolitica dei trasporti

questa è l’ultima intervista a Radio Studio Europa di giovedi 23 scorso sul libro “geopolitica dei trasporti”.

cliccare sul link sottostante



http://ec.europa.eu/italia/studio_europa/un-libro-per-europa/index_it.htm



paolo

martedì 21 gennaio 2014

Un quadro poco rassicurante

Cambogia
Cambogia 133
Soldati appartenenti all’Unità Commando Speciale 911 sono intervenuti venerdì tre gennaio per sedare le proteste organizzate da un gruppo di lavoratori del settore tessile davanti alla fabbrica Yak Jin, nella periferia di Phon Penh, uccidendo quattro persone e arrestandone 23. Lo sciopero di massa dei lavoratori del tessile era iniziato a fine dicembre, in seguito alla decisione del governo di non accordare l’aumento del minimo salariale richiesto dai sindacati. La risolutezza dell’intervento delle Forze di sicurezza cambogiane e la temporanea messa al bando di qualsiasi forma di manifestazione pubblica, formulata dal Ministro dell’Interno, Sar Kheng, nelle ore successive agli scontri, hanno suscitato molte critiche nei confronti del governo: le Nazioni Unite hanno sollecitato le autorità ad accertare la responsabilità delle violenze ed annunciato l’arrivo, nei prossimi giorni, dell’Inviato Speciale dell’Ufficio Diritti Umani d! ell’ONU per la Cambogia, Surya Subedi.
Il malcontento sociale registrato nelle ultime settimane si va ad inserire in un contesto già fortemente destabilizzato dalle contemporanee manifestazioni del Cambodia National Rescue Party (CNRP), partito di opposizione che contesta i risultati delle ultime elezioni, tenutesi lo scorso 18 luglio, da cui è emerso vincitore il Cambodian People’s Party (CCP), il partito del Primo Ministro Hun Sen. A fine dicembre, il lavoratori in sciopero si sono uniti ai manifestanti del CNRP nel chiedere le dimissioni del Primo Ministro Hun Sen. In un momento in cui la popolarità del CCP è ai minimi storici, un’eventuale convergenza tra le manifestazioni politiche antigovernative e le proteste dei lavoratori potrebbe portare a un’ulteriore erosione del consenso di cui beneficia il partito di governo: già alle ultime elezioni, lo scarto tra CCP e CNRP era stato di soli 300 mila voti.

Iraq
Iraq 133
Nel corso dei primi giorni di gennaio, una vasta offensiva qaedista – appoggiata da una forte componente tribale sunnita in lotta contro le autorità di Baghdad – ha portato lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) a prendere il controllo di Falluja e di parte di Ramadi, nella provincia occidentale di Anbar. All’origine di questi ultimi sviluppi vi è la decisione del governo iracheno di ordinare lo sgombero, il 30 dicembre scorso, di un campo di dimostranti a Ramadi: i manifestanti accusavano l’esecutivo guidato da Nouri al-Maliki di discriminare la comunità sunnita irachena in favore della minoranza sciita, della quale lo stesso Premier fa parte. A gennaio, i dimostranti hanno ricevuto il sostegno dei miliziani dell’ISIS, molti dei quali di rientro dalla Siria, dove il gruppo ha recentemente dovuto abbandonare alcune delle proprie più importanti postazioni.
Largamente favorita dal controllo qaedista di buona parte de! i punti di frontiera con la Siria, l’avanzata dell’ISIS in Iraq si è così innestata sul retroterra delle sempre più acute tensioni settarie che caratterizzano lo scenario del Paese. Nel contempo, un ruolo non marginale è rivestito dai leader tribali della provincia di Anbar, alcuni schieratisi apertamente con i miliziani qaedisti, altri – gli stessi che negli anni delle operazioni americane avevano collaborato con il generale David Petraeus, all’epoca capo delle Forze Armate statunitensi in Iraq, contribuendo a fiaccare l’insurrezione jihadista – rimasti a sostegno di Baghdad. È proprio su questi ultimi che il Governo Maliki punta ora per riprendere il controllo di Falluja. Qualora la mediazione tribale dovesse fallire, l’Esercito procederà nei prossimi giorni al lancio di un’offensiva militare. A Ramadi, dove la presenza dell’ISIS appare meno radicata, le Forze Armate irachene sono già passate all’azione recuperando terreno nei confronti dei qaedist! i.
Siria
Siria 133
Il Presidente del Sud Sudan, Salva Kiir Mayardit, ha annunciato in un discorso alla nazione di aver sventato un colpo di Stato del suo ex Vice Presidente Riek Machar, uscito dal governo a luglio. A Juba tra lunedì e martedì ci sono stati violenti scontri tra soldati ribelli e forze regolari, che hanno causato la morte di circa 500 persone secondo fonti ONU. Le forze di sicurezza governative affermano di avere il controllo della capitale, di aver arrestato diversi politici coinvolti nel golpe e di essere alla ricerca di Machar. Nonostante ciò la lotta tra le due fazioni continua: una sede della missione ONU ad Akobo – città al confine con l’Etiopia – è stata attaccata dai ribelli provocando tre morti tra i caschi blu. Dopo appena due anni dalla indipendenza dal Sudan, sancita da un referendum secessionista, le tensioni all’interno della elite al potere sono sfociate nella violenza settaria. Nonostante Kiir e Machar siano gli esponent! i di punta del Sudan People's Liberation Movement (SPLM) - il più importante partito indipendentista -  sono divisi da appartenenze tribali. Il Presidente fa capo alla tribù dinka, la maggioritaria nel Paese, mentre l’ex Vice Machar proviene dalla numerosa tribù di nuer. Entrambe sono stanziate nel Sud Sudan centro settentrionale, principalmente tra la regioni di Bahr al-Ghazal e Kordofan. In queste aree vi sono i più importanti giacimenti petroliferi dello Stato e la loro gestione diviene fonte di problemi. Le tensioni claniche si acuiscono poi maggiormente quando, durante la stagione secca, i sottogruppi familiari dei due clan invadono le corrispettive aeree durante le migrazioni. La ripartizione di potere si è sempre dimostrata più difficile tra le due più importanti tribù, arrivando a sfociare nel tentativo di colpo Stato. Il clan nuer sta cerando con la violenza di arrivare all’apice del potere scalzando i dinka che dominano la politica sud-sudanese dal 2! 005.

 
Turchia
Turchia 133
Il Parlamento dello Yemen ha votato a favore del divieto dell'uso dei droni statunitensi che sorvolano il Paese per il contrasto al terrorismo internazionale. La motivazione data dall’Assemblea è stata l’ultima incursione di un aereo a pilotaggio remoto nella città di Radaa, nel governatorato di al-Baydaa, area con forte presenza di militanti di al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP). Il raid ha colpito un corteo nuziale uccidendo 17 persone, tra le quali si sospettava vi fosse la presenza di esponenti del network qaedista. Questo metodo di contrasto al terrorismo da parte degli USA, è motivo di malcontento da parte della società civile poiché i raid hanno provocato vittime civili In tutto ciò gli attacchi di AQAP si susseguono.  Una settimana prima dell’attacco del drone al corte nuziale, infatti, un commando qaedista aveva colpito con un duplice attentato dinamitardo il Ministero della Difesa, provocando oltre 50 morti. Gli at! tacchi terroristici sono la risposta di AQAP all’azione repressiva del governo di Sanaa. La decisione finale sul divieto di sorvolo dei droni spetterà però solo al Presidente Abd Rabbo Mansur Hadi. Quest’ultimo è chiamato alla difficile mediazione tra esigenze di sicurezza interna e consenso elettorale. Da una parte le proteste per le vittime civili sono un problema di politica interna che le autorità yemenite devono affrontare per non perdere credibilità di fronte agli elettori; dall’altra l’aiuto militare dato dagli USA permette a Sanaa di contrastare il consolidamento del potere qaedista nella parte meridionale dello Yemen, impedendo la destabilizzazione del Paese.

martedì 14 gennaio 2014

India: collaborazione con la Russia. Sviluppo del BMP3

India

INDIA
Nel corso della recente riunione della Commissione Intergovernativa sulla Cooperazione militare e tecnologica indo-russa, i rappresentanti indiani hanno comunicato alle controparti di non voler accantonare il proprio programma Futuristic Infantry Combat Vehicle (FICV) in favore dei BMP-3 di fabbricazione russa, offerti nel dicembre 2012, a condizione che il programma indiano venisse interrotto.
Per un valore totale di circa 10 miliardi di dollari, il Programma FICV prevede la produzione di circa 2600 veicoli, in sostituzione degli ormai vetusti BMP-1 e BMP-2 di fabbricazione russa. Adesso il programma indiano è libero di proseguire come prestabilito, sulla base del prototipo di pre-produzione Abhay, sviluppato nel 2005 dalla Defence Research & Development Organisation del Ministero della Difesa. I costi per lo sviluppo del prototipo saranno coperti per l'80% da fondi pubblici, con il restante 20% a carico di chi avrà vinto il bando di gara. Saranno due i produttori ! selezionati dal Ministero della Difesa per la produzione dei due prototipi che saranno oggetto della gara finale.  
Il programma FICV è stato approvato ormai 5 anni fa e, da allora, alcuni dei soggetti industriali nazionali “in odore di commessa” hanno cercato di sviluppare, con alterne fortune, delle connessioni internazionali. E' il caso della ormai defunta joint-venture tra Mahindra Defence Systems e BAE Systems, del consorzio tra Larsen & Toubro e Nexter Systems (Francia) e del fallito approccio tra Tata Motors e Rheinmetall. L'Esercito indiano, nel frattempo, prevede di aggiornare gli attuali 1440 BMP-2, per un costo totale di 1,8 miliardi di dollari. La nuova dotazione includerà un nuovo armamento e un sistema avanzato di controllo del tiro, nonché capacità avanzate di osservazione e sorveglianza che possano consentire la piena operatività notturna.

domenica 12 gennaio 2014

Fondo Monetario: nuove vie da percorrere

Crisi dell’eurozona
L’autocritica del fondo monetario e la lezione greca
Lorenzo Bini Smaghi
13/06/2013
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Il rapporto del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) sull’attuazione del programma di aggiustamento della Grecia è stato interpretato da molti commentatori ed esponenti politici, in particolare in Italia, come una critica alle politiche di austerità attuate negli ultimi anni in Europa. Forse il documento, che è stato pubblicato all’inizio di giugno, non è stato letto con sufficiente attenzione.

Il rapporto del Fmi pone in modo esplicito la questione se il risanamento fiscale in Grecia avrebbe dovuto essere più graduale. La risposta è negativa. L’aggiustamento del saldo primario (14,5% del Pil) era “il minimo necessario per ridurre il debito al 120% del Prodotto entro il 2020”. Un aggiustamento più graduale avrebbe richiesto peraltro un ammontare maggiore di aiuti, rispetto ai 110 miliardi di euro previsti nel primo pacchetto finanziario, dei quali i 30 miliardi a carico del Fmi “rappresentavano già il prestito più elevato mai concesso dal Fondo”.

Moltiplicatore fiscale
Che alternative c’erano dunque? Il Fondo suggerisce che si sarebbe potuto procedere con una ristrutturazione del debito greco, sin dal maggio 2010.

La ristrutturazione del debito viene decisa quando è evidente che il debito non è più sostenibile. La valutazione della sostenibilità del debito è un esercizio complesso, che si basa inevitabilmente su ipotesi che riguardano non solo l’efficacia delle misure di risanamento ma anche la capacità e la volontà delle autorità del paese di metterle in atto.

Un’ipotesi fondamentale riguarda l’impatto delle misure di risanamento fiscale sulla crescita, in altre parole il moltiplicatore fiscale. Se il moltiplicatore è superiore a 1, una politica fiscale restrittiva riduce il prodotto lordo in modo più che proporzionale e fa pertanto salire il debito pubblico. Nel caso greco, il moltiplicatore fiscale è stato chiaramente sottostimato. Questo emerge anche da altri studi svolti di recente dal Fmi.

Per trarne delle conseguenze per il futuro, bisogna capire se la sottostima del moltiplicatore sia stata dovuta al modo in cui è stato disegnato il programma di aggiustamento o al modo in cui esso è stato messo in pratica dalle autorità del paese. Il documento del Fondo contiene alcune considerazioni utili al riguardo.

Errori ed omissioni
Sono stati sicuramente fatti degli errori nella configurazione del programma. Ciò è derivato in parte dalla scoperta che il disavanzo pubblico per il 2009 non era pari al 6% del prodotto, come era stato previsto dallo stesso Fmi nella prima metà di quell’anno, ma a oltre il doppio. Parte dell’errore è stato fatto nella fase di sorveglianza della situazione greca, che per anni ha sopravvalutato lo stato di salute di quella economia.

Inoltre, le condizioni iniziali del prestito erano troppo penalizzanti, in termini di durata e di tasso di interesse, perché tarate sulle procedure standard del Fmi che non tenevano sufficientemente conto delle peculiarità di un paese partecipante a una unione monetaria.

Il punto cruciale, tuttavia, è che il programma non è stato implementato dalle autorità greche come inizialmente previsto. Il documento del Fondo enumera una serie di manchevolezze. Le privatizzazioni non sono mai partite. Le misure di lotta all’evasione non sono state attuate. L’aggiustamento fiscale è avvenuto in larga parte dal lato delle entrate. Le riforme strutturali sono state sistematicamente rinviate. La ricapitalizzazione del sistema bancario è stata effettuata troppo tardi, alimentando la fuoriuscita di depositi. La lista è lunga.

Il documento del Fondo riconosce che in realtà non c’era un sufficiente consenso bipartisan nel paese, tale da consentire una implementazione efficace delle misure. L’amministrazione pubblica è riuscita ad ostacolare le riforme. In sintesi, il paese non aveva una struttura decisionale capace di mettere in atto gli impegni sottoscritti.

La mancanza di coesione sociale e lo stato di arretratezza dell’infrastruttura amministrativa della Grecia sono stati sottostimati. Questa è stata la grande differenza rispetto all’Irlanda e al Portogallo, che spiega anche i diversi risultati. D’altra parte, anche se il Fondo monetario e l’Unione europea fossero stati a conoscenza di tali problemi, cosa avrebbero dovuto fare? Non avrebbero forse dovuto fidarsi del governo e del parlamento greco, quando questi sottoscrivevano ufficialmente i loro impegni?

Queste domande aprono quesiti ancor più complessi sul ruolo che possono svolgere le istituzioni sovranazionali e i rapporti con stati sovrani.

L’impatto devastante di una ristrutturazione del debito
Quando il paese non è in grado di effettuare l’aggiustamento necessario, e tale aggiustamento non può essere diluito, non rimane che la ristrutturazione del debito. Nel caso della Grecia, il rapporto del Fmi suggerisce che la ristrutturazione avrebbe potuto avvenire prima. Non fornisce tuttavia gli elementi per valutare i costi e benefici di una tale soluzione. Un motivo è che non ci sono precedenti. Quelli menzionati nel documento non sono rilevanti. La ristrutturazione dell’Uruguay, avvenuta nel 2001, ha comportato una perdita contenuta per gli investitori, di poco oltre il 10%, ed è stata facilmente concordata con le controparti estere.

La Giamaica, che ha ristrutturato il proprio debito nel 2011, non è comparabile alla Grecia, come non lo è l’Islanda, che ha potuto penalizzare i creditori esteri e salvaguardare quelli nazionali, cosa che non è possibile fare all’interno dell’Unione monetaria. La cosiddetta iniziativa di Vienna, che viene menzionata nel rapporto del Fmi, è stata messa in atto nei confronti dei paesi dell’Est per mantenere le linee di credito bancarie degli altri paesi europei, che nel caso greco non esistevano.

La difficoltà più rilevante, nel caso greco, è che una larga parte del debito pubblico - circa il 100% del prodotto nel 2009 - è detenuta da residenti, in particolare dalle banche. Una ristrutturazione che comporta una forte riduzione del valore effettivo del debito colpisce i risparmi di un’ampia fascia della popolazione greca - quella più debole - e mette in ginocchio il sistema finanziario. Le esigenze di ricapitalizzazione attraverso fondi pubblici - presi a prestito dalla comunità internazionale - fanno aumentare il debito esterno e compensano in larga parte il risparmio ottenuto dalla ristrutturazione. La perdita di valore dei titoli pubblici si ripercuote direttamente su tutti gli altri valori mobiliari del paese, con un impatto fortemente recessivo.

La questione che non viene sufficientemente esaminata è se l’impatto restrittivo di una ristrutturazione del debito è maggiore o minore di quello provocato dalle misure di risanamento contenute nel programma di aggiustamento. L’evidenza disponibile sull’evoluzione dell’economia greca non sembra mostrare che il moltiplicatore fiscale si sia ridotto dopo la ristrutturazione effettuata nel 2011.

Infine, la ristrutturazione del debito pubblico di un paese contagia il resto dell’area. Quando l’ipotesi di ristrutturazione del debito greco ha cominciato ad essere discussa, nella primavera del 2011, i timori che anche altri paesi potessero seguire la stessa via ha subito fatto salire i rendimenti sui titoli di stato italiani e spagnoli, fin quando non è intervenuta la Banca centrale europea, nell’agosto 2011.

Effetto domino
Se la ristrutturazione greca fosse stata avviata nel maggio 2010, prima della creazione del Fondo Salva Stati, il contagio non avrebbe potuto essere evitato e avrebbe provocato la ristrutturazione anche in altri paesi, con perdite rilevanti per i loro risparmiatori. L’integrità dell’euro sarebbe stata messa in pericolo. L’impatto sui mercati internazionali sarebbe stato devastante.

Il rischio maggiore è che si diffonda sui mercati internazionali la percezione che dopo l’esperienza greca i governi dei paesi dell’euro siano sempre più tentati da una ristrutturazione preventiva del debito pubblico, nell’illusione che ciò rappresenti una scorciatoia per risolvere le loro difficoltà.

Si riprodurrebbero i danni fatti nell’ottobre 2010 dall’accordo di Deauville tra Nicholas Sarkozy e Angela Merkel, poi sottoscritto anche dagli altri capi di governo, sul coinvolgimento dei creditori privati negli aiuti ai paesi in difficoltà. Il premio di rischio sui titoli di stato dei paesi in difficoltà salirebbe immediatamente, aumentando l’onere sul debito pubblico e indebolendo il loro sistema bancario, con effetti a catena sul credito alle famiglie e imprese di quei paesi. Il rischio di ristrutturazione del debito alimenterebbe immediatamente una fuga dai titoli di stato dei paesi più fragili.

Sfida per l’Europa
Contrariamente a quanto è stato scritto in questi giorni, le conclusioni del documento del Fmi devono destare preoccupazione nei paesi europei, soprattutto quelli periferici. Quel rapporto non rimette infatti in discussione la necessità del risanamento fiscale ma la capacità di attuarlo in modo efficace e politicamente accettabile. Sottolinea inoltre la necessità di condurre d’ora in poi analisi più rigorose della sostenibilità del debito dei paesi maggiormente indebitati, sulla base di ipotesi più credibili riguardo l’impatto delle misure restrittive, soprattutto quando non accompagnate da riforme, e la capacità e volontà dei paesi di implementarle. Se tale analisi non dà indicazioni chiare di sostenibilità, verrà raccomandato di procedere alla ristrutturazione del debito, prima piuttosto che dopo.

L’impatto economico di tale ristrutturazione è fortemente recessivo. Viene ridimensionata la ricchezza delle famiglie e messa a repentaglio la stabilità finanziaria. Tale effetto è tanto più forte quanto più alta è la quota di debito pubblico detenuta dai residenti. Le ripercussioni sociali sono imprevedibili. L’evidenza storica mostra peraltro che difficilmente i governi democratici sopravvivono alla ristrutturazione del debito e che quei paesi spesso precipitano nel caos. La Grecia, nel 2012, ci è andata molto vicina.

L’autocritica del Fondo monetario, se di autocritica si tratta, rischia di costare caro ai paesi europei.

Lorenzo Bini Smaghi è presidente Snam e senior visiting fellow dello IAI.
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