| ||||||||
Molta meno attenzione è stata dedicata invece al Corridoio Meridionale del Gas (Southern Gas Corridor), il progetto sponsorizzato dall’Unione europea, Ue, che punta alla diversificazione delle importazioni del gas. L’assenza di un dibattito critico, soprattutto negli ambienti istituzionali europei e nazionali, è sorprendente a fronte dei rischi e delle scelte che comporta il sostegno al Corridoio. Il Corridoio Meridionale del Gas Il progetto mira a ridurre la dipendenza europea dalle importazioni di gas russo. Esso prevede quattro fasi. La prima riguarda l’estrazione del gas e l’infrastrutturazione del giacimento di gas naturale Shah Deniz-2 nel mar Caspio, in territorio azero. La seconda comprende l’espansione della South Caucasus Pipeline per il trasporto del gas attraverso Azerbaigian e Georgia fino alla Turchia. In Turchia, il gas proseguirà la sua corsa verso ovest attraverso la Trans Anatolian Pipeline (Tanap), al momento in costruzione (terza fase). Infine, la Trans Adriatic Pipeline (Tap), di futura realizzazione, dovrebbe convogliare parte del gas in Italia attraverso Grecia, Albania e Mar Ionio (quarta fase). Il costo dell’opera è stimato intorno ai 45 miliardi di dollari. Le esportazioni di gas attraverso il Corridoio Meridionale dovrebbero cominciare entro il 2020, raggiungendo un tetto di 16 miliardi di metri cubi all’anno intorno al 2025. Si tratta di volumi modesti, praticamente dimezzati rispetto a quelli inizialmente auspicati dalla Commissione europea col progetto Nabucco (tramontato definitivamente nel 2013 e sostituito da quello descritto sopra). Inoltre, 6miliardi di metri cubi sono destinati al consumo in Turchia e solo 10 raggiungerebbero l’Ue. Per un raffronto, nel 2015 la Russia ha esportato in Europa e Turchia oltre 158 miliardi di metri cubi di gas. Utilizzando le infrastrutture già esistenti, Mosca potrebbe aumentare ulteriormente le sue esportazioni, creando un surplus che determinerebbe un calo dei prezzi e ridurrebbe la già discutibile redditività del Corridoio Meridionale. Le crescenti importazioni di gas naturale liquefatto in Europa contribuirebbero ulteriormente a questo trend. I sostenitori del Corridoio Meridionale talvolta argomentano che la capacità del progetto potrebbe essere incrementata fino a 32 miliardi di metri cubi l’anno. Al momento, questo appare impossibile se non si trovano altri fornitori di gas oltre all’Azerbaigian, che potrebbe perfino trovarsi in difficoltànel garantire i 16 miliardi di metri cubi all’anno già venduti. Le due opzioni più probabili per le forniture aggiuntive sarebbero il Turkmenistan e l’Iran. In entrambi i casi, l’ulteriore distanza e l’infrastrutturazione necessaria sembrano ostacoli pressoché insormontabili dal punto di vista economico. Per ottenere il gas turkmeno, l’Ue dovrebbe anche affrontare l’agguerrita concorrenza cinese e convincere gli stati con sbocco sul Mar Caspio (Russia e Iran compresi) a determinare lo status legale del bacino, attraverso il quale dovrebbe essere costruito il gasdotto di collegamento col Turkmenistan. Nagorno-Karabakh, rischi energetici del conflitto Progettato per contribuire alla sicurezza energetica europea, il Corridoio Meridionale potrebbe in realtà diventare fonte d’insicurezza a causa delle dispute geopolitiche nei territori attraversati. La più grave è quella relativa al Nagorno-Karabakh, una regione contesa militarmente da Armenia e Azerbaigian da quasi trent’anni, a pochi chilometri dalla South Caucasus Pipeline. Il rischio di un ampio conflitto nell’area è aumentato notevolmente negli ultimi anni, durante i quali i contendenti hanno moltiplicato le spese militari. Nell’aprile del 2016, le tensioni sono sfociate in quattro giorni di guerra. Nel caso di un futuro conflitto, l’Armenia potrebbe condurre attacchi aerei (già simulati nel recente passato) o missilistici (resi possibili dal recente acquisto di missili Iskander, Scud-B eTochka-U dalla Russia) contro le infrastrutture energetiche azere. L’Ue e il rischio di dipendenza energetica da Paesi autoritari Il Corridoio Meridionale aumenterebbe la dipendenza energetica europea da Paesi autoritari. L’Azerbaigian, unico fornitore certo di gas destinato al progetto, è stato descritto in una recenterisoluzione del Parlamento europeo come il Paese che negli ultimi dieci anni ha subito il più grande declino in termini di governance democratica in tutta l'Eurasia. Freedom House ha inoltre specificato che la realizzazione del Corridoio Meridionale rafforzerebbe finanziariamente il governo repressivo e corrotto del Presidente azero Ilham Aliyev. La Turchia diventerebbe un importante Paese di transito per le forniture energetiche europee, aumentando ulteriormente il suo potere contrattuale con l’Ue. Viste le tendenze autoritarie del presidente turco e i suoi recenti tentativi di usare questioni come quella dei rifugiati nei negoziati con Bruxelles, i leader europei farebbero bene a chiedersi se è opportuno creare una nuova forma di dipendenza dalla Turchia. Ultime, ma non meno importanti, sono le questioni ambientali. Al di là del considerevole impatto ambientale dell’opera, appare inopportuno che l’Ue sostenga - anche finanziariamente, tramite fondi pubblici concessi attraverso la Banca europea degli investimenti - un progetto dai costi notevolissimi e destinato allo sfruttamento di combustibili fossili. A questo proposito, è importante ricordare che l’Energy Roadmap 2050 impegna l’Ue a ridurre le emissioni di gas a effetto serra dell’80-95% rispetto ai livelli del 1990. Questo obiettivo potrà essere raggiunto solo se i limitati fondi disponibili vengono investiti nell’efficientamento energetico e nello sviluppo delle energie rinnovabili. Marco Siddi, Finnish Institute of International Affairs. | ||||||||
mercoledì 26 ottobre 2016
Il Corridoio Meridionale del Gas
domenica 23 ottobre 2016
Energia da aree di crisi
| ||||||||
Questo, se il pericoloso crocevia di irrisolte questioni territoriali, tensioni storiche o nuovi contrasti - che saranno discussi in una conferenzaorganizzata dallo IAI - non impediranno lo sviluppo e lo sfruttamento di risorse che rappresentano in effetti una novità per il Mediterraneo orientale, e un’opportunità per la sicurezza energetica europea. Da Leviathan ad Aphrodite e Zohr Israele, ad esempio, ha scoperto negli ultimi quindici anni tre grossi giacimenti nel Mediterraneo, di dimensioni crescenti: Mari-B, con circa 28 miliardi di metri cubi (bcm) di gas; Tamar, circa 280 bcm, da solo al momento capace di soddisfare il 40% della generazione elettrica israeliana; Leviathan, con circa 620 bcm, ma la cui produzione partirà non prima del 2019. Risorse importanti, ma su cui pende l’incertezza su circa 854 miglia quadrate al confine marittimo con il Libano, vicine alle scoperte di cui sopra, e su cui Beirut ha già cercato di mettere all’asta ipotetiche concessioni. Una situazione in realtà che è più critica a Cipro, autore della scoperta nel 2011 di Aphrodite, una riserva di gas che potrebbe contenere dagli 80 ai 140 bcm, la prima nel Paese e che potrebbe portare forse a numerose altre. Nonostante sia posizionata alla punta a sud della Zona economica esclusiva, Zee, del Paese, questo non ha però fermato le rivendicazioni della Turchia, che nel 2014 ha inviato due navi da guerra nelle aree dove Eni e Kogas effettuavano le proprie esplorazioni. La più grande scoperta è stata però egiziana, con il giacimento Zohr scoperto nel 2015 da Eni pochi chilometri a sud di Aphrodite. Si tratta probabilmente del più grande giacimento nel Mediterraneo, 850 bcm, capace da solo di soddisfare il 40% del fabbisogno energetico annuale egiziano. Immune da rivendicazioni territoriali grazie alla definizione delle rispettive Zee con Cipro già nel 2003, lo sviluppo del gas egiziano, così come quello degli altri Paesi, potrebbe però andare incontro ad altri problemi. Israele, Cipro ed Egitto e la gestione delle risorse energetiche In questo complesso scenario, un punto appare chiaro: nessuno di questi Paesi ha le competenze per sviluppare, da solo, le risorse energetiche di cui è dotato, in parte per la limitata esperienza, come per Cipro e Israele, o per la sua inefficiente struttura, come nel caso dell’Egitto. Attrarre però compagnie e investimenti stranieri richiede una stabilità che oggi è minacciata tanto dai conflitti esterni, che da problematiche domestiche. Israele, ad esempio, impiegherà almeno nove anni per passare dalla scoperta di Leviathan al suo sfruttamento, più del doppio rispetto al Tamar. Un problema nato dalla ristrutturazione del settore voluta a partire dal 2010 dal governo di Benjamin Netanyahu per ridurre i profitti delle compagnie di idrocarburi ed evitare un monopolio del duo Noble-Delek, autore della scoperta di Leviathan, il cui ritardo potrebbe costare al Paese fino a 26 miliardi di dollari. L’Egitto, invece, affronta una domanda domestica senza controllo che potrebbe assorbire le proprie risorse e impedire un’esportazione utile sia alla sua economia, che ad attrarre ulteriori investimenti esteri. Crescita economica e demografica, maggiore consumo dovuto all’uso crescente di aria condizionata ed elettronica, e un sistema di sussidi pubblici per l’energia spesso fuori controllo hanno aumentato la domanda di energia del paese del 5,6% dal 2000 al 2012, con un +8,7% nel settore gas. Mediterraneo orientale, alla ricerca di una governance energetica Nonostante alcune aperture sul fronte cipriota e il miglioramento delle relazioni tra Turchia e partner regionali come Israele ed Egitto, la creazione di meccanismi di cooperazione regionale totalmente inclusivi appare ancora difficile. Alternative parziali, che non comprendano cioè tutti i Paesi del Mediterraneo orientale, potrebbero però funzionare, come dimostrato dal recente accordo tra il Cairo e Nicosia, o sulla convergenza tra Israele, Cipro e Grecia sul gasdotto East Med. Un’infrastruttura che potrebbe già prendere il via dopo il trilaterale tra Alexis Tsipras, il presidente cipriota Nicos Anastasiades e Netanyahu il prossimo dicembre. Ad oggi, la composizione di queste collaborazioni sub-regionali è però legata a doppio filo alla destinazione finale di questo gas. La partecipazione di Cipro di fatto escluderebbe la Turchia come mercato di riferimento - nonostante le ottime prospettive di domanda e l’interesse di Ankara a diversificare rispetto al gas russo - favorendo in alternativa la “via europea”. L’Egitto potrebbe invece agire da catalizzatore più neutrale per la cooperazione regionale, visti i suoi rapporti generalmente positivi con i Paesi dell’area: resta però aperto il nodo di Israele, con il quale i vicini arabi commerciano con difficoltà, ma che soprattutto vede con sospetto la totale dipendenza da infrastrutture egiziane per le sue esportazioni. In generale, una governance energetica regionale mutualmente vantaggiosa potrebbe contribuire a stemperare tensioni geopolitiche vecchie di decenni. Potrebbe anche essere però che la scoperta di maggiori risorse, e in aree contese, scaturiranno ulteriori conflitti per la loro attribuzione, di fatto prevenendone lo sviluppo, come nel Mar Cinese Meridionale per i continui scontri tra Vietnam e Cina. Una sfida tra una ratio politica e una economica, su cui forse solo il tempo potrà dare una risposta. Lorenzo Colantoni è Junior Fellow presso lo IAI –Twitter@colanlo. Nicolò Sartori è responsabile di ricerca e coordinatore del Programma Energia dello IAI. |
giovedì 13 ottobre 2016
ONU: Il nuovo segretario generale
| ||||||||
![]() Non importa il genere del candidato, quanto semmai le priorità della sua piattaforma e la sua agenda politica, avevano cadenzato le giovani donne all’ex Segretario di Stato convintamente preferendo il messaggio chiaro e un po’ scapigliato - ma netto, in una rottura tutt’altro che gentile - di Bernie Sanders contro tutte le disuguaglianze. Da Lisbona al Palazzo di Vetro Alla Segreteria generale delle Nazioni Unite le candidature che avevano il vento in poppa e l’identikit perfetto - calibrato secondo il bilancino del manuale Cencelli della diplomazia mondiale - si sono tutte sgonfiate durante l’estate, mentre l’outsider pocoappealing, ma di salda esperienza ha guadagnato gradualmente terreno. Il successore di Ban Ki Moon, che il 31 dicembre conclude il suo mandato decennale, sarà António Guterres, ex primo ministro portoghese, socialista, 67 anni, dieci dei quali alla guida dell’Agenzia Onu per i rifugiati, l’Unhcr - dove è stato da gennaio sostituito dall’italiano Filippo Grandi. Il suo nome è emerso dal sesto scrutinio del Consiglio di sicurezza, Cds, dove ha ottenuto 13 voti a favore e due “no opinion” su 15: di fatto, cioè, nessun membro permanente ha usato il veto sull’ex Alto commissario, che è stato invece in testa sin dalla prima votazione interlocutoria dello scorso giugno, senza scendere mai sotto gli 11 consensi favorevoli. Non solo una soluzione di compromesso che ha messo d’accordo le potenze regionali, ma anche - secondo molte letture - una scelta per rilanciare il ruolo dell’Onu, affidato nelle mani esperte di un politico navigato non nuovo alla diplomazia multipolare che, dopo l’investitura, ha commentato a caldo di voler essere al servizio dei più vulnerabili (“vittime di guerre, terrorismo, della violazione dei diritti e della povertà e delle ingiustizie del mondo”). Apertamente sostenuto dalla sola Francia, fra i cinque membri permanenti del Cds con diritto di veto, l’ex leader lusitano è emerso da subito come una valida candidatura ‘interna’ all’universo onusiano: la stessa carta, tuttavia, giocata anche dalla bulgara Irina Bokova, la direttrice generale dell’Unesco (la più grande delle agenzie Onu) favoritissima della vigilia. Già, perché stavolta, secondo la regola non scritta della rotazione regionale, sarebbe dovuto toccare a un rappresentante dell’est europeo che sino ad oggi non ha mai espresso il numero uno delle Nazioni Unite. Tante le candidature provenienti da oltre-cortina, con una chiara indicazione: la strada per il seggio più importante dell’Onu porta - anche stavolta per la prima volta nella storia - a una donna. E in effetti la metà dei nominati era rosa. Bulgaria e Ue, dall’altare alla polvere Partita come predestinata al papato, la Bokova è uscita dalle stanze a porte chiuse (ma sempre più friabili) del Cds con ancora indosso la porpora cardinalizia. Su di lei pesavano un eccessivo gradimento di Mosca (dove ha studiato) e i dubbi degli Stati Uniti (dove pure si è perfezionata). Tuttavia, come ha ben riassunto a margine del terzo scrutinio un alto diplomatico dell’Unione europea con trascorsi all’Onu, il Segretario generale si fa col favore di Washington e la non belligeranza russa. E così, con un avvitamento carpiato - e bilanciando questioni di politica interna - il governo di Sofia, a guida popolare, ha accantonato l’opzione della socialista ed ex comunista Bokova (rimasta però formalmente in gara) per lanciare tardivamente nella corsa - a fine settembre - la forte candidatura di Kristalina Georgieva, influente vicepresidente della Commissione europea sul cui nome si era da subito esposta la cancelliera tedesca Angela Merkel. A puntellare il sostegno dell’economista bulgara - un passato alla Banca mondiale - c’erano un ben più marcato via libera degli Stati Uniti e la non opposizione della Russia (che alla vigilia dell’ultimo scrutinio aveva prefigurato il successo di una donna dell’est). L’Unione europea, Ue, invece, ha ancora una volta scoperto il fianco ed è arrivata frammentata al voto decisivo (oltre a Francia e Regno Unito, nel consesso del Cds c’era anche la non permanente Spagna): poco contano i postumi cori di giubilo per la designazione del portoghese (nell’annus mirabilis della storica vittoria dell’Europeo di calcio); le istituzioni Ue giocavano questa partita direttamente e avendoci messo la faccia, oltre che un membro di primissimo piano dell’”esecutivo” comunitario, in congedo temporaneo non pagato per far campagna elettorale (cui hanno dato man forte anche uomini e donne dell’Ue, di passaggio a New York per l’assemblea generale di settembre). Onu sempre più aperto e trasparente Per la designazione del decimo Segretario generale, l’Onu ha aperto i suoi riti all’occhio della società civile, votando le sue procedure alla maggiore trasparenza possibile, come rimarcato dal presidente di turno del Cds, il russo Vitaly Churkin, al momento dell’annuncio del consenso trovato sul nome di Guterres. A partire da aprile, i contendenti si sono cimentati di fronte agli elettori dell’Assemblea generale e alle telecamere della diretta web streaming. Tante le audizioni, sei i voti informali, prima che il Cds trovasse l’unità (o perlomeno, il non dissenso) sul nome di Guterres, che sarà così in grado di mettere a punto transizione e priorità nello scorcio finale di anno, prima dell’ufficiale insediamento, il 1° gennaio 2017. Una tempistica che rispetta l’indicazione di novembre come termine entro cui dare un successore a Ban. Adesso toccherà all’Assemblea generale - il corpo elettorale onusiano, dove “uno vale uno” - esprimersi sulla raccomandazione fatta dal Cds, come prescrive la Carta delle Nazioni Unite: un’adunanza non è stata ancora convocata, ma dovrebbe arrivare a breve. E senza sorprese, visto che la raccomandazione del Cds dovrebbe agilmente riflettere la volontà generale dei 193 paesi membri dell’Onu. Gabriele Rosana, giornalista pubblicista e assistente alla comunicazione dello IAI, è LLM Candidate in diritto dell’Ue al Collegio d’Europa di Bruges. (Twitter: @GabRosana). |
lunedì 10 ottobre 2016
Europa: la Difesa comune e la posizione dell'Italia
giovedì 6 ottobre 2016
Gran Bretagna. Terremoti dalle onde lunghe
| ||||||||
Corbyn invece ha concentrato i suoi sforzi sui social media dove ha trovato il richiamo che ha favorito l’entrata di una straordinaria massa di nuovi iscritti al vecchio partito laburista. Il fenomeno è particolarmente impressionante dato che questa fascia d’età si è rivelata negli ultimi anni allergica a qualsiasi forma di partecipazione politica, a partire dal voto. Basti pensare che solo il 30 per cento di questa fetta della società si è espresso nel referendum per la Brexit. Il futuro del governo ombra Resta da vedere in che modo questa affermazione di Corbyn si tradurrà in una effettiva leadership dentro e fuori il parlamento. Contestato duramente, formalmente sfiduciato dai parlamentari labour prima dell’estate, Corbyn deve ora ricostruire il governo ombra - più di 50 posti sono attualmente vacanti - e far capire come intende gestire il Comitato centrale del Partito. A differenza del Partito conservatore, dove vige un inossidabile rispetto per le gerarchie di status, successo e pedigree politico, all’interno del partito laburista c’è la convinzione che tutti abbiano gli stessi diritti - o almeno pari dignità - nel ricercare un posto negli vari organi del partito. Nella situazione attuale regna una confusione totale su come Corbyn intenda gestire le sue responsabilità di leader: favorendo elezioni democratiche per il governo ombra o imponendo regole che possano garantire a lui e i suoi - compreso i super-militanti del movimento che lo hanno sostenuto fino ad ora, ‘Momentum’ - un controllo completo del Consiglio nazionale esecutivo del partito. Movimento di massa più che partito di governo Tutti si aspettano ora - anche dentro e dopo il congresso del partito che si è svolto in questa fine settimana - un duro regolamento dei conti con la maggioranza in Parlamento che non aveva mai espresso tanta fiducia nei confronti di Corbyn, arrivando addirittura a sfiduciarlo. Molti temono che la lotta per domare le varie faide in corso nel partito - e dentro il mondo sindacale, anch’esso diviso sul personaggio - possa assorbire gran parte delle energie, della credibilità e del capitale politico di Corbyn. In tal caso, che fine faranno la passione e le energie dei tanti nuovi iscritti che si sono commossi per la purezza e coerenza di questa vecchia figura di profeta del socialismo stile britannico, così dogmaticamente pragmatico e moralistico, così poco ideologico ? Anche se Corbyn è convinto che il suo partito deve esprimersi soprattutto come movimento che nasce dal basso, piuttosto che come pura forza di governo, non ha ancora presentato alcun progetto per la sua corrente. Oltre alle solite assemblee locali e alle mobilitazioni in vista delle varie scadenze elettorali, servirebbe un progetto per rilanciare l’antica tradizione laburista di istruzione ed educazione politica, tentando di elevare il livello culturale - ora penoso - dei dibattiti politici in Gran Bretagna. Regno disunito Nonostante il suo legame con i nuovi media, in termini di contenuti e di proposte politiche specifiche, Corbyn torna al tradizionale modello del welfare state: sistema sanitario, edilizia sociale, scuola pubblica non privata; ri-nazionalizzazione delle ferrovie e di altri settori; rilancio del ruolo dello Stato nell’economia in grande stile; terzomondismo; opposizione al nucleare sia in campo militare che civile. Eppure ora nel Regno Unito non c’è solo questo in gioco. La sfida della Brexit dominerà per anni l’evoluzione economica e politica del Paese. Il Partito laburista è crollato proprio in Scozia, dove ha stravinto il Remain (sostenuto blandamente da Corbyn) e che vuole sempre più autonomia da Londra anche per questo motivo. Si profila un’inedita crisi costituzionale per il sempre meno United Kingdom. Intanto il ruolo delle grandi potenze nel mondo - Usa, Cina, Russia, India - e la globalizzazione in tutte le sue versioni condizioneranno la situazione di tutti gli europei con modalità ben diverse rispetto a quelle terzomondiste e buoniste di Corbyn. Avanzano le problematiche delle migrazioni, del cambiamento climatico, del fondamentalismo islamico. Chi riuscirà a domare i mercati finanziari internazionali e quelli energetici e digitali? Corbyn è convinto davvero che si possa affrontare tutto ciò - e sconfiggere i Tories alle elezioni generali - chiamando ogni tanto alla riscossa i suoi tanti giovani fan tramite Facebook e Twitter? David Ellwood, Johns Hopkins University, SAIS Bologna Center. | ||||||||
Iscriviti a:
Post (Atom)