Immigrazione Integrare i migranti nelle società europee: coesione sociale o stratificazione? Angela Paparusso 07/03/2016 |
Mentre la fortificazione delle frontiere esterne d’Europa traballa - come sta accadendo al confine tra Grecia e Macedonia - sotto i colpi dei migranti che cercano protezione in Europa, l’emergenza dei concitati fatti di questi giorni ha offuscato per l’ennesima volta il dibattito su come integrare i migranti una volta accolti in Europa.
Eppure la questione è tutt’altro che secondaria, visto che ad oggi l’approccio prevalente resta quello della ‘convergenza verso l’integrazione civica’. Una linea politica, avviata nei paesi nord-europei negli anni Novanta, progressivamente replicata da quattordici paesi europei tra cui Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, e più recentemente l’Italia.
In altre parole, per risiedere in Europa, gli immigrati devono dimostrare, attraverso dei test, la conoscenza di lingua, cultura, valori e regole del paese di residenza, al fine di ottenerne il permesso di soggiorno o la cittadinanza. Regola che vale per tutti i migranti di lungo periodo, inclusi i rifugiati, ma non per i cosiddetti migranti qualificati.
Anche l’Italia,con i suoi cinque milioni di migranti regolari residenti, non è stata esente da questa svolta culturalista. Dal 2007, anno in cui Giuliano Amato, Ministro dell’Interno durante il Governo Prodi promuove la ‘Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione’, diversi atti governativi hanno promosso l’importanza della conoscenza della lingua, della storia e dei principi costituzionali italiani come prerequisito per un’inclusione degli immigrati.
È il caso del Pacchetto Sicurezza, approvato dal Governo Berlusconi nel luglio 2009, del ‘Piano per l’integrazione nella sicurezza. Identità e incontro’ del 2010 e del ‘Patto per l’integrazione’ entrato in vigore nel marzo 2012.
Tutte misure caratterizzate dal richiamo alla centralità dell’apprendimento della lingua italiana, dell’educazione civica e della conoscenza delle regole sociali, politiche ed economiche che regolano la società italiana.
Il sistema è, in teoria, estremamente stringente:attraverso un sistema di crediti, gli immigrati sono obbligati a firmare, entro 8 giorni dal loro ingresso regolare in Italia, un contratto di integrazione con cui si impegnano a dimostrare, entro due o tre anni, le competenze raggiunte.
Una preparazione insufficiente o la mancata frequentazione dei corsi implica il diniego del permesso di soggiorno e quindi l’espulsione dal territorio italiano.
Nella pratica, tuttavia, ad oggi, è ancora prematuro e difficile - soprattutto a causa della discrezionalità con cui tali misure vengono implementate - valutarne l’efficacia per il processo di integrazione.
Proprio questo scollamento tra politiche e prassi, suggerisce alcune riflessioni. La prima è che per la prima volta, l’integrazione civica è riuscita a conciliare il centro-sinistra - tradizionalmente abbastanza inclusivo nei confronti dell’immigrazione e più incline ad una equiparazione dei diritti socio-economici fra cittadini stranieri e cittadini italiani - e il centro-destra, storicamente più attento alla funzionalità mercato del lavoro e all’inserimento degli stranieri in quei settori economici che gli italiani generalmente rifiutano.
Entrambi hanno posto al centro del processo di integrazione degli immigrati degli elementi culturali, allineando l’azione e il dibattito politico italiano alla tendenza europea.
Tuttavia, è evidente che, sebbene la conoscenza della lingua, della cultura e delle regole del paese di residenza rappresenti un indiscusso strumento di integrazione economica e di mobilità sociale, queste politiche di integrazione civica, tanto in Europa quanto in Italia, denunciano chiaramente un approccio restrittivo rispetto all’immigrazione, che nei fatti si declina o con misure che contribuiscono a dissuadere e selezionare gli ingressi e a stratificare la popolazione immigrata, o con un rallentamento dei processi di integrazione. Ciò avviene nella misura in cui le politiche di integrazione civica prevedono un trattamento differenziato per gli immigrati cosiddetti desiderati, ai quali non viene richiesta nessuna prova della conoscenza della lingua e della cultura del paese in cui risiedono, e gli immigrati non desiderati o i rifugiati, ai quali invece vengono imposti gravosi corsi e test di integrazione.
Inoltre, faccenda non del tutto secondaria, la logica del controllo, che sembra permeare non solo la politica delle frontiere e dell’immigrazione, ma anche quella dell’integrazione, può alimentare episodi di insofferenza e violenza,sia tra gruppi immigrati, sia tra questi ultimi e la popolazione autoctona.
Siamo quindi così sicuri che la convergenza verso l’integrazione civica sia auspicabile per la coesione sociale delle società europee?
Angela Paparusso è Ph.D. candidate in Demografia all’Università di Roma “La Sapienza” dove si occupa di politiche di integrazione degli immigrati in Europa. Ha studiato a Rostock presso il Max Planck Institute per la Ricerca Demografica e all’Università Autonoma di Barcellona, dove ha conseguito lo “European Master in Demography” (angela.paparusso@uniroma.it).
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In altre parole, per risiedere in Europa, gli immigrati devono dimostrare, attraverso dei test, la conoscenza di lingua, cultura, valori e regole del paese di residenza, al fine di ottenerne il permesso di soggiorno o la cittadinanza. Regola che vale per tutti i migranti di lungo periodo, inclusi i rifugiati, ma non per i cosiddetti migranti qualificati.
Anche l’Italia,con i suoi cinque milioni di migranti regolari residenti, non è stata esente da questa svolta culturalista. Dal 2007, anno in cui Giuliano Amato, Ministro dell’Interno durante il Governo Prodi promuove la ‘Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione’, diversi atti governativi hanno promosso l’importanza della conoscenza della lingua, della storia e dei principi costituzionali italiani come prerequisito per un’inclusione degli immigrati.
È il caso del Pacchetto Sicurezza, approvato dal Governo Berlusconi nel luglio 2009, del ‘Piano per l’integrazione nella sicurezza. Identità e incontro’ del 2010 e del ‘Patto per l’integrazione’ entrato in vigore nel marzo 2012.
Tutte misure caratterizzate dal richiamo alla centralità dell’apprendimento della lingua italiana, dell’educazione civica e della conoscenza delle regole sociali, politiche ed economiche che regolano la società italiana.
Il sistema è, in teoria, estremamente stringente:attraverso un sistema di crediti, gli immigrati sono obbligati a firmare, entro 8 giorni dal loro ingresso regolare in Italia, un contratto di integrazione con cui si impegnano a dimostrare, entro due o tre anni, le competenze raggiunte.
Una preparazione insufficiente o la mancata frequentazione dei corsi implica il diniego del permesso di soggiorno e quindi l’espulsione dal territorio italiano.
Nella pratica, tuttavia, ad oggi, è ancora prematuro e difficile - soprattutto a causa della discrezionalità con cui tali misure vengono implementate - valutarne l’efficacia per il processo di integrazione.
Proprio questo scollamento tra politiche e prassi, suggerisce alcune riflessioni. La prima è che per la prima volta, l’integrazione civica è riuscita a conciliare il centro-sinistra - tradizionalmente abbastanza inclusivo nei confronti dell’immigrazione e più incline ad una equiparazione dei diritti socio-economici fra cittadini stranieri e cittadini italiani - e il centro-destra, storicamente più attento alla funzionalità mercato del lavoro e all’inserimento degli stranieri in quei settori economici che gli italiani generalmente rifiutano.
Entrambi hanno posto al centro del processo di integrazione degli immigrati degli elementi culturali, allineando l’azione e il dibattito politico italiano alla tendenza europea.
Tuttavia, è evidente che, sebbene la conoscenza della lingua, della cultura e delle regole del paese di residenza rappresenti un indiscusso strumento di integrazione economica e di mobilità sociale, queste politiche di integrazione civica, tanto in Europa quanto in Italia, denunciano chiaramente un approccio restrittivo rispetto all’immigrazione, che nei fatti si declina o con misure che contribuiscono a dissuadere e selezionare gli ingressi e a stratificare la popolazione immigrata, o con un rallentamento dei processi di integrazione. Ciò avviene nella misura in cui le politiche di integrazione civica prevedono un trattamento differenziato per gli immigrati cosiddetti desiderati, ai quali non viene richiesta nessuna prova della conoscenza della lingua e della cultura del paese in cui risiedono, e gli immigrati non desiderati o i rifugiati, ai quali invece vengono imposti gravosi corsi e test di integrazione.
Inoltre, faccenda non del tutto secondaria, la logica del controllo, che sembra permeare non solo la politica delle frontiere e dell’immigrazione, ma anche quella dell’integrazione, può alimentare episodi di insofferenza e violenza,sia tra gruppi immigrati, sia tra questi ultimi e la popolazione autoctona.
Siamo quindi così sicuri che la convergenza verso l’integrazione civica sia auspicabile per la coesione sociale delle società europee?
Angela Paparusso è Ph.D. candidate in Demografia all’Università di Roma “La Sapienza” dove si occupa di politiche di integrazione degli immigrati in Europa. Ha studiato a Rostock presso il Max Planck Institute per la Ricerca Demografica e all’Università Autonoma di Barcellona, dove ha conseguito lo “European Master in Demography” (angela.paparusso@uniroma.it).
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