L’intervento americano del 7 aprile contro la base aerea siriana di Sheikhoum nei pressi di Homs, in risposta all’attacco con armi chimiche di due giorni prima nell’area di Idlib, lungo la traiettoria Aleppo-Damasco, sulla dorsale della cosiddetta ‘Siria utile’, chiarisce molte cose, e ne lascia aperte molte altre.
Chiarisce che gli Stati Uniti rientrano in scena, dopo anni di oscillazioni, tentativi di ‘leading from behind’ e in definitiva trasferimento del dossier siriano nelle mani dei russi e dei loro alleati iraniani; che le Nazioni Unite subiscono ancora una volta una sconfitta, nel mezzo di una sessione inconcludente del CdS; che d’ora in avanti, assumendo che gli Stati Uniti di Trump vogliano ora rivestire un ruolo primario nelle dinamiche future, la strategia americana torna per così dire alle origini.
Non più il riequilibrio delle influenze Non più dunque, il “riequilibrio” di influenze tra Monarchie sunnite e Iran che è stato al centro della strategia di Obama, ma una ritrovata attenzione alle istanze delle prime e per contro un indiretto riscontro alle preoccupazione di “contenimento” di Teheran perorato da Israele.
Chiarisce che qualcosa si è spezzato nel rapporto con la Russia, a lungo coltivato dall’ Amministrazione Obama ancorché in termini problematici e poi prospettato addirittura come ‘amichevole’ nelle propensioni di Trump; e che, a giudicare dalle prese di posizione degli europei, Unione europea, Nato, l’Occidente è pronto a ricompattarsi pur con diverse sfumature dietro alla leadership americana unendosi al giudizio sulle responsabilità di Assad per questa e per le precedenti tragedie umanitarie.
Chiarisce che la Cina mantiene la tradizionale opposizione a interventi militari, pur non alzando i toni. Conferma infine lo stile decisamente unilaterale di Trump, che ha proceduto solo nell’imminenza dell’azione militare a darne informazione ‘tecnica’ agli alleati e parimenti alla Russia.
Una iniziativa estemporanea e umorale, secondo alcuni, ma certamente adottata su impulso di apparati militari e di intelligence che evidentemente ne hanno predisposto i contorni da tempo. Poco importa che le Forze Armate siriane siano riuscite a dislocare in tempo utile un gran numero di aerei e materiale militare. Importa che l’intervento sia stata appoggiato dagli altri occidentali e che abbia fatto saltare, almeno per ora, il tentativo di Mosca di costituire una Commissione di Inchiesta per determinare in via preliminarele responsabilità, e magari replicare grosso modo lo scenario seguito all’attacco di fine agosto 2013 nella zona di Goutha.
Allorché l’intervento armato fu evitato dopo che Damasco, con la mediazione di Mosca, e qualche aiuto di Papa Francesco, accettò di aderire alla Convenzione sulla Proibizione delle Armi Chimiche e trasferire il materiale chimico su due navi americane per la distruzione in alto mare. Forse, non tutto.
Iniziativa estemporanea, che suscita interrogativi Altrettanto numerosi sono per contro gli interrogativi che l’iniziativa di Trump suscita. Primo fra tutti, se essa si limiterà a questo episodio oppure sarà l’avvio di una vera e propria campagna militare, che tuttavia i precedenti di Iraq e Libia dovrebbero scoraggiare. In secondo luogo, se e come Mosca intenderà rispondere.
Le prime reazioni declaratorie sono per uno stretto richiamo alla “legalità internazionale”: Trump ha violato la sovranità di uno Stato, ha attribuito responsabilità non comprovate, l’azione americana rischia di pregiudicare la lotta ai jihadisti che dovrebbe invece essere la causa comune, incoraggiandoli nelle loro azioni terroristiche. Parole dure, che evocano un clima da guerra fredda.
Ma non è escluso che, nel concreto, a Mosca prevalga il pragmatismo, tenendo conto che Putin ha finora ben calcolato le sue mosse, che l’appoggio ad Assad è funzionale a specifici interessi, in primis l’acquisizione di uno status internazionale e la preservazione delle basi aereo-navali nel Mediterraneo, e che da tempo la Russia è alla ricerca di un disimpegno militare che la sollevi dai pesanti oneri di una presenza così massiccia.
La mobilitazione di navi russe e l’invio in Siria di nuovi dispositivi di difesa anti-aerea è il minimo che ci si poteva aspettare, e l’auspicio di Lavrov che l’episodio non costituisca “nulla di irreparabile” nelle relazioni con gli americani parrebbe andare nello stesso senso.
Negoziato, sopravvivenza a rischio Un terzo, non minore, interrogativo riguarda i seguiti del negoziato che tecnicamente è in corso a Ginevra sotto l’egida delle Nazioni Unite. Se cioè opposizione interna e relativi sostenitori regionali vorranno utilizzare l’insperato spazio di manovra ora apertosi a loro favore per rispettare la tregua e perseguire una soluzione politica che preveda in via transitoria la partecipazione di Assad, come peraltro previsto fin dal 2012 nel Piano Kofi Annan, oppure insisteranno, come stanno facendo da anni, per un’uscita immediata dei governativi di Damasco dal tavolo negoziale e dalla scena. E se sapranno reperire la necessaria unitarietà di intenti nel frammentato scenario, isolando i jihadisti.
Un quarto interrogativo investe Israele, che finora ha limitato le sue iniziative militari in Siria mostrando un intelligente auto-controllo, ma è allarmato per l’ingombrante presenza in area di un Iran riabilitato dopo l’intesa nucleare conclusa dal gruppo 5+1 nell’estate 2015.
Un quinto interrogativo riguarda la Turchia di Erdogan che, assieme a una ritrovata sintonia con Washington e all’immediato riflesso di una missione a Mosca per non disperdere i vantaggi delle intese di Astana, ha subito rilanciato l’idea di una no-fly zone e di aree di sicurezza a ridosso dei propri confini per allontanare il paventato pericolo di sinergie tra curdo-siriani e Pkk.
L’incertezza regna. Resta poi in tutta evidenza all’ordine del giorno il tema dell’impunità dei responsabili dei crimini di guerra, per ora bloccato dalle contrastanti visioni degli attori regionali e internazionali.
È chiaro a tutti che nessun intervento militare può risolvere i problemi della Siria. Che una metastasi l’hanno già prodotta in termini di terrorismo e di masse di rifugiati. Una stabilizzazione democratica si impone, e questa non può che maturare per via negoziale.
Spetta ora all’Europa, che della crisi siriana è la prima a fare le spese, il compito di fare tutto il possibile per rilanciare le trattative. E contribuire attivamente a contemperare gli interessi in campo dei protagonisti interni, regionali, internazionali. L’Italia in questo può avere un ruolo molto importante, in omaggio alle sue tradizioni e capacità di mediazione. Le occasioni non mancano, a partire dalla Presidenza del G7 e dalle programmate missioni preparatorie del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio a Mosca. Solo così l’intervento militare di Trump avrà avuto un senso.
Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante permanente presso l’Onu, Ginevra.
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