22 gennaio 1944 - 22 gennaio 2025 Lo Sbarco ad Anzio
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4 ore fa
Blog di base per l'approfondimento della Geografia Politica ed economica attraverso immagini, cartine, grafici e note. Spazio per lo studio attraverso la Geografia Statistica delle varie aree di crisi. Espressione esterna del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro (www.cesvam.it) (info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
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Nel susseguirsi di notizie negative che stanno sconvolgendo lo scacchiere geopolitico, ve ne è una che va controcorrente: lo spettacolare tonfo nelle quotazioni dell’oro nero, che a gennaio ha toccato quota 47 dollari al barile solo in parte temperato dal rialzo intorno ai 60 dollari registrato nelle ultime settimane.
Illustri macroeconomisti hanno argomentato come un greggio a buon mercato possa rilanciare produzione industriale e domanda interna. Vi è inoltre consenso sul fatto che il petrolio basso stia riducendo ulteriormente le già deboli pressioni inflazionistiche, regalando alle banche centrali maggiori margini per attuare una politica monetaria espansiva. Analisti geopolitici evidenziano come l’attuale congiuntura sui mercati energetici limiterà il raggio d’azione di regimi spesso problematici sullo scacchiere internazionale (Iran, Venezuela e Russia su tutti). Essa ridurrà anche il flusso di denaro legato al complesso, ma reale, legame tra rendite petrolifere e finanziamento dell’islamismo radicale. Indubbiamente buone notizie per un Occidente importatore cronico e in difficoltà con diversi paesi produttori di petrolio, soprattutto nel mondo islamico. Arabia Saudita tiene bassa l’asticella del prezzo Pecca però di eccessivo ottimismo chi vede nel crollo dei prezzi una capitolazione dell’Opec e un’inversione strutturale dei rapporti di forza tra produttori e importatori. Infatti, se il trend ribassista è da attribuire in primo luogo all’eccesso di offerta sul mercato fisico, la sua tempistica ed entità sono state influenzate in maniera fondamentale dalle mosse del blocco di paesi dominanti all’interno dell’Opec, saldamente guidato dall’Arabia Saudita. Spalleggiati dagli alleati del Consiglio della cooperazione del Golfo, Ccg, (Kuwait, Qatar, Emirati, Bahrain e Oman), i principi sauditi hanno infatti accentuato il crollo delle quotazioni rifiutandosi, con il barile già sotto agli 80 dollari, di annunciare un taglio della produzione al vertice Opec del 27 novembre scorso. L’Arabia Saudita ha tenuto un tale atteggiamento nonostante un intervento fosse pienamente giustificato dalla situazione di mercato e richiesto quasi disperatamente da una fetta significativa di paesi Opec (Iran, Venezuela e Nigeria in primis) nonché da altri importanti produttori come Messico e Russia che partecipavano al vertice. La mossa è stata poi puntellata il mese successivo dalle dichiarazioni del ministro del petrolio Ali al-Naimi sulla possibilità di un petrolio a 20 dollari. Shale, una vittoria di Pirro? La narrativa trionfalista della ‘vittoria energetica’ dei trivellatori a stelle e strisce che spodestano gli sceicchi nel dominio del mercato petrolifero nasconde dunque una realtà meno piacevole. Il settore shale americano avrà pure sostituito il gigante saudita Saudi Aramco nel ruolo di “swing producer” in grado di influenzare le quotazioni, come argomenta Alan Greenspan sul Financial Times. Una cosa però è essere swing producerper scelta, lasciando strategicamente fuori dal mercato fette consistenti della propria capacità produttiva (come fanno i sauditi da almeno 30 anni), un altro è esserlo per necessità, in quanto la propria produzione oscilla costantemente attorno alla soglia della profittabilità in uno scenario di estrema volatilità dei prezzi. Per la schiera di produttori indipendenti del Texas o del Nord Dakota un barile intorno ai 50-60 dollari significa flirtare con la bancarotta, soprattutto quando scadranno i contratti di hedging firmati per coprire la produzione dei prossimi uno o due anni. Una tale condizione non potrà che portare a un ridimensionamento della produzione a stelle e strisce, nonostante i dati più recenti ancora non segnalino un calo dei volumi estratti. Le formazioni geologiche scistose (shale), da cui proviene gran parte dell’incremento del 65% nella produzione del petrolio americano negli ultimi cinque anni, necessitano di continui investimenti in nuove trivellazioni per mantenere i livelli di attività attuali, ma l’afflusso di liquidità dai mercati finanziari - complice anche l’annunciata fine delquantitative easing promosso dalla Fed - rischia di affievolirsi. E senza capitali si svuoteranno anche i treni e gli oleodotti che trasportano il greggio americano verso le raffinerie del Golfo del Messico, non a caso - come ha mostrato Bassam Fattouh dell’Oxford Institute of Energy Studies - le destinazioni preferite per il greggio saudita prima della shale devolution. Geopolitica dell’abbondanza saudita Nel lungo periodo, inoltre, è difficile immaginare che i paesi del Golfo e i membri delle loro numerose famiglie reali si accontentino di vivere in un mondo di petrolio a buon mercato, privandosi dei lussi e dei privilegi globali che hanno saggiato durante l’ultimocommodity boom. Anche questa volta l’Arabia Saudita avrebbe a disposizione le armi per invertire la tendenza: basterebbe diminuire la produzione, cosa che si è rifiutata di fare al vertice Opec di novembre. In presenza di un segnale opposto, i capitali finanziari potrebbero rientrare rapidamente sul mercato dei futures con aspettative rialziste, in un remake del rialzo del 2009-2010 dopo il crollo di fine 2008. Nulla di nuovo da Ryad: la nuova “geopolitica dell’abbondanza” assomiglia molto a quella vecchia. Andrea Bonzanni è un analista di mercati e politiche energetiche residente a Londra, dove si occupa di regolazione del trading, mercati del gas e emissions trading. Le opinioni espresse in questo articolo sono a titolo personale. | ||||||||
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Dopo anni di tormentate trattative, il 2014 ha segnato uno spartiacque per gli Economic Partneship Agreements (Epa), accordi commerciali fra Unione europea (Ue) e blocco Africa, Caraibi, Pacifico (Acp).
Con la firma di accordi regionali in tre dei cinque blocchi africani, la maratona degli Epa, iniziata nel 2002, sembra avvicinarsi al suo rettilineo finale. Epa si, Epa no Gli Epa intendono mettere fine al sistema unilaterale di preferenze Ue-Acp, in favore di regimi ‘asimmetrici’ in base ai quali l’Ue garantisce accesso senza dazi e quote ai paesi Acp, ottenendo in cambio aperture e liberalizzazioni dei mercati Acp di minor portata (fino al 75%). La base legale è l’accordo di partenariato Ue-Acp di Cotonou (2000), erede degli accordi di Lomé, che prevede la fine del pluridecennale regime preferenziale riservato ai paesi Acp, incompatibile con i dettami liberoscambisti dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Per i fautori degli Epa tali accordi adatteranno le relazioni Ue-Acp alla realtà del commercio globale odierno, terminando discriminazioni verso paesi terzi e assicurando compatibilità con le disposizioni dell’Omc. Per i detrattori, gli Epa avvantaggeranno solo l’Ue: se mal calibrate, le liberalizzazioni previste arrecherebbero danni irreversibili alle industrie nascenti in Africa. L’impatto sul settore agricolo dei paesi africani è tutto da valutare: con l’eccezione di una nicchia di prodotti sensibili, gli Epa mettono i mercati africani davanti al rischio di invasione di prodotti agricoli europei a prezzi più bassi. Tutto ciò metterebbe fuori gioco i produttori africani che farebbero più fatica ad entrare nel mercato europeo, considerate le barriere non tariffarie esistenti e la minor competitività dovuta anche alle sovvenzioni della contestata Politica agricola comune europea. Per economie fortemente basate sull’agricoltura come quelle africane, l’impatto degli Epa sul commercio agricolo Ue-Acp è quindi un nodo centrale. Epa in Africa, un percorso tortuoso Se gli accordi Ue-Caraibi si sono conclusi rapidamente (2008), in Africa i negoziati Epa sono stati costellati di difficoltà riguardanti modalità, tempistiche, e grado delle liberalizzazioni, nonché la protezione di prodotti sensibili e le compensazioni per la perdita immediata delle entrate dei dazi doganali. Per incentivare la conclusione di accordi definitivi, l’Ue ha concesso e poi esteso all’ottobre 2014 la Market Access Regulation che garantiva accesso senza dazi né quote ai prodotti dei paesi Acp firmatari di accordi ‘interim’. Questa mossa è stata decisiva: nel 2014 sono stati conclusi accordi con tre blocchi africani: Africa occidentale (Ecowas), australe (Sadc) e orientale (Eac). Nel 2015, con l’approvazione da parte dei Parlamenti nazionali e la ratifica dei rispettivi Capi di Stato, gli Epa dovrebbero finalmente entrare in vigore nei blocchi firmatari. In Africa centrale e sud-orientale i negoziati sono invece ancora in corso a causa di spaccature interne ai blocchi. Per questi paesi il tempo stringe: nel 2015 è prevista la revisione quinquennale dell’Accordo di Cotonou e all’orizzonte incombono le trattative per un nuovo accordo-quadro Ue-Acp, vista la spada di Damocle della scadenza di Cotonou nel 2020. Il tortuoso percorso dei negoziati Epa in Africa, costellato di incomprensioni, bizantinismi burocratici, ritardi strategici e deroghe non rispettate, ha a lungo costituito una spina nel fianco delle relazioni Ue-Acp. Con il tempo i rapporti di forza sono però cambiati e le carte al tavolo dei negoziati si sono rimescolate. Se l’Ue è stata indebolita da una crisi interna acutissima, le economie africane hanno vissuto un periodo di forte espansione, sviluppo e accresciuto peso politico. Bruxelles, conscia di questi cambiamenti, è quindi passata da un atteggiamento intransigente a uno più flessibile improntato sulla logica del compromesso. Apertura e protezione, un fragile equilibrio Nel breve periodo l’implementazione degli Epa porterà con sé costi di adattamento e squilibri commerciali, ma una valutazione obiettiva sull’impatto di accordi di questa portata deve fondarsi su un’ottica di medio e lungo termine. Allo stato attuale esprimere giudizi di merito risulta difficile, vista la pluralità delle variabili in gioco e l’incertezza in merito alle modalità di implementazione. Certo è che l’insostenibilità di regimi commerciali preferenziali unilaterali in un panorama globale caratterizzato da economie sempre più interdipendenti e aperte è un fatto assodato per molti. Il mancato adeguamento del commercio Ue-Acp alla geografia economica contemporanea sarebbe politicamente miope per entrambi. I paesi africani in procinto di implementare gli Epa hanno però economie fondate sull’esportazione di materie prime. Quasi nessuno esporta quei prodotti semi-lavorati o finiti, nei quali risiede il surplus economico maggiore e che garantiscono ritorni positivi dal libero scambio con altri blocchi. Nella storia economica moderna, le più durevoli esperienze di crescita e sviluppo su scala regionale (industrializzazione in Europa nel diciannovesimo secolo e ‘East Asian miracle’ nella seconda meta del ventesimo)sono state caratterizzate da una fase iniziale di protezione commerciale di settori strategici. Questo ‘farsi le ossa’ predispone un’economia ad affrontare i mercati globali con i dovuti anticorpi. In assenza di ciò, per paesi con strutture economiche poco diversificate - e quindi molto vulnerabili - le aperture previste dagli Epa potrebbero diventare un vero e proprio salto nel buio. Nicola Tissi (MSc, London School of Economics) si occupa di Africa e cooperazione allo sviluppo dal 2009. Al momento ricopre la posizione di assitente ai programmi del settore educazione nell'Ufficio di Cooperazione dell'Ambasciata d'Italia a Maputo. È raggiungibile al seguente indirizzo: nicola.tissi@gmail.com. |
Sicurezza marittima Flotte mediterranee contro Pirati Barbareschi Fabio Caffio 10/03/2015 |
Guerra al Califfato Paura dei foreign fighters, ma non troppa Daniel L. Byman, Jeremy Shapiro 04/03/2015 |
Immigrazione Onda libica sui flussi migratori Fedora Gasparetti 27/02/2015 |